In sei mesi il panorama politico italiano si è radicalmente trasformato.
Una giovane donna siede a Palazzo Chigi, guidando una solida maggioranza di centro destra e, proprio in questi giorni, una ancora più giovane collega ha conquistato la leadership del maggior partito di opposizione.
Creare forzosi parallelismi è fuorviante oltre che inutile dal momento che le dividono storie, percorsi, appartenenze politiche e sfide che dovranno affrontare completamente diverse.
In un Paese però in cui la classe politica è sempre stata monopolizzata dai maschi l’ormai famoso “tetto di cristallo” sembra aver ceduto.
Certo i numeri ci segnalano che le parlamentari elette in questa legislatura rappresentano solo il 33%, dato molto basso ed in calo rispetto a quella precedente. E delle 20 Regioni soltanto una (l’Umbria) è guidata da una donna. Rimane comunque l’aspetto simbolico che, in politica e nella vita, è sempre rilevante.
Se Giorgia Meloni ha già compiuto il suo lungo processo di consolidamento da leader politico (iniziato nel 2012 con la fondazione di Fratelli d’Italia fino ad arrivare a settembre 2023 con la vittoria alle elezioni politiche) il percorso di Elly Schlein è appena agli inizi. Conclusa la competizione elettorale (in cui è stata bravissima a differenza di Bonaccini) ora dovrà affrontare problematiche interne ed esterne al suo Partito.
Ed è su questi aspetti che vorrei concentrare la mia riflessione.
Il punto da cui partire è le modalità della sua elezione. Dopo aver perso infatti le primarie riservate agli iscritti la Schlein si afferma nel voto degli “esterni” e cioè dei simpatizzanti ed elettori che si sono recati nei gazebo del Partito Democratico domenica 26 febbraio.
Primo elemento di novità: non era mai successo che la scelta degli iscritti venisse “ribaltata” nelle consultazioni aperte. Un vero e proprio tsunami ha investito il corpaccione del PD, con una partecipazione al voto più alta rispetto anche alle più rosee aspettative. L’effetto di spaesamento è inevitabile. Non deve sorprendere quindi che la prima difficoltà della Schlein sarà quella di compattare proprio gli iscritti militanti, quelli che, quotidianamente sui territori, svolgono l’attività politica. Che non l’avevano votata ma che se la ritrovano ora come leader.
Altro aspetto è superare nei fatti un altro “paradosso” collegato alla sua elezione: Lei che ha fatto della radicale novità la cifra della sua campagna elettorale dovrà ora affrancarsi dai così detti padri nobili che l’hanno sostenuta. E cioè i vari capi corrente del partito che hanno deciso di far convergere sul suo nome il proprio endorsement. Da Zingaretti a Orlando, da Franceschini a Bettini passando da Boccia e dagli ex (ma sulla via di ritorno) di Art. Uno e cioè Speranza, Bersani, D’Alema. Un insieme di storie e posizioni personali che poco si concilia con lo spirito fortemente innovativo da Lei sostenuto e praticato.
In questo passaggio l’aver perso le primarie interne potrà agevolarla.
È sui tesserati infatti che le varie cordate e gli equilibri tra correnti giocano un peso rilevante. Ma in questo campo, come detto, la Schlein ha perso. Quindi ha meno debiti di riconoscenza rispetto a quelli che gli attribuiscono molti dei commentatori politici. E questo le permetterà anche di avere più spazio di manovra nei confronti degli sconfitti: Bonaccini e i suoi sostenitori e cioè una larga fascia di amministratori locali, e la parte più riformista del PD, con cui dovrà trovare modalità di convivenza, pur nel rispetto delle forti differenze emerse durante le primarie.
Più difficile sarà il controllo dei gruppi parlamentari, un elemento di nodale importanza nell’attività politica, soprattutto per chi sta all’opposizione.
La leadership, soprattutto all’inizio, non può permettersi distinguo o trattative estenuanti per trovare un punto di caduta tra idee, programmi e proposte di policy (che si sostanziano appunto nelle aule parlamentari). Avere gruppi parlamentari coesi sarà di fondamentale importanza.
Ma a parte gli equilibri organizzativi dovrà soprattutto ridare entusiasmo e una linea politica ad un partito che ha sempre perso le ultime competizioni elettorali. Che ha fagocitato, anche per questo, una intera generazione di leader politici.
Come un novello Crono, dalla sua nascita (2007, quindi circa 16 anni fa) il Partito Democratico ha avuto ben 8 segretari esclusa la Schlein: Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi, Martina, Zingaretti, Letta…
Non un buon viatico quindi.
La nuova segretaria però ha dalla sua l’età, una buona dose di pragmatismo e un orizzonte temporale di almeno un anno e mezzo prima della prossima competizione elettorale in cui potrà misurare la propria capacità politica.
Le elezioni europee si terranno infatti nella primavera del 2024, con il sistema elettorale proporzionale che evita quindi la necessità di allearsi con altri soggetti.
Sono elezioni fortemente “identitarie” dove quindi la Schlein si dovrà presentare con una macchina organizzativa coesa ed un posizionamento programmatico molto ben preciso.
In questo ambito dovrà anche definire il rapporto con la CGIL e con Landini: quanto cioè il suo PD potrà essere autonomo da uno dei pochi corpi intermedi che, nonostante la crisi di rappresentanza, detiene un ancoraggio organizzativo un patrimonio simbolico – valoriale non da poco. Come spesso accade il tempo è una delle risorse più scarse a disposizione. La partita comincia domenica prossima, all’assemblea del partito dove ci sarà il primo vero confronto per l’elezione dei nuovi organi direttivi e quindi la neo Segretaria dovrà esporre la propria visione.
P.S. A mio modo di vedere uno degli effetti dell’elezione della Schlein (ancora da verificare) non è tanto l’archiviazione del “renzismo” (la linea di orientamento riformista del PD) ma semmai il tramonto della categoria politica del c.d. Partito degli amministratori. Il pensiero cioè che le competenze amministrative acquisite nel governo di una amministrazione locale siano risorse a cui i partiti possano attingere per la definizione di leadership nazionali. Di cui Matteo Renzi è stato forse la figura più emblematica ma non solo. Lo stesso Bonaccini rappresentava questo concetto. Come se l’essere un bravo amministratore fosse di per se una garanzia sufficiente per essere un leader politico. Può capitare ma non è detto e soprattutto non c’è alcun automatismo.