I significati di Capitol Hill

Intervista a Marcello Campo

1. L’assalto a Capitol Hill ha suscitato una forte sensazione in Italia e nel mondo. Per molti, in Occidente, quel luogo è una testimonianza storica della civiltà e del progresso umano. Si tratta, infatti, del cuore della democrazia americana. Per alcune ore, il ricco apparato simbolico e rituale di cui si nutre la retorica democratica, quando celebra la grandezza degli Stati Uniti, ha perso così la sua sacralità. Di fronte ad una contesa tanto aspra quanto interna, per la prima volta, nella storia recente, è sembrato che media e personale politico italiani abbiano dovuto spiegare, “significare”, precisare, quell’identità culturale che li lega trasversalmente agli Stati Uniti. È così? Cosa dice agli italiani Capitol Hill?

Senza dubbio quello che è accaduto il sette gennaio a Washington ha provocato uno shock in tutto il mondo, a maggior ragione in quella parte del pianeta che viene definita storicamente Occidente, di cui fa parte il nostro Paese. Quel gruppo di estremisti trumpiani, quelle milizie armate vicine ai “Proud Boys”, profanando le aule del Campidoglio, non stavano solo violando una sede parlamentare, ma stavano distruggendo un mito, quello della intoccabilità e per alcuni della “infallibilità” della “più antica democrazia al mondo”, o per altri della più perfetta. Un attacco terroristico seguito in tutto il mondo in diretta tv e sui social, che anche da noi ha subito causato divisioni e polemiche, ripetendo tutto sommato, nel giro di poche ore, le stesse divisioni e le stesse polemiche registrate subito dopo il trionfo di Donald Trump quattro anni fa. Purtroppo, l’atteggiamento della stampa italiana rispetto agli Stati Uniti soffre di due complessi uguali e contrari, quello di inferiorità o di superiorità. Tutto ciò che viene dagli States, un continente più che un Paese, ricchissimo di contraddizioni, a casa nostra spesso viene prima giudicato, amato o odiato, e molto meno studiato e analizzato. Così inevitabilmente la pubblicistica si divide tra “tifosi” osannanti di qualsiasi forma politica o culturale Made in Usa, e chi invece “demonizza” quel Paese vedendone solo i tanti difetti. Secondo la prima fazione, l’unico obiettivo delle nostre istituzioni, politiche, economiche, sociali sarebbe “fare come in Usa”, copiarne i modelli. Ad onor del vero questa divisione è stata lacerante nei decenni scorsi, in un contesto più legato alla guerra fredda, quando l’Italia, dove era presente il Partito comunista più forte d’Occidente, destava qualche preoccupazione a Dc. Ora tutto è cambiato: da tanti anni, in maniera unanime, hanno la meglio i “fans”, gli ultras, gli appassionati incondizionati. La svolta impressa dal berlusconismo ha accelerato questa tendenza. Tanti di loro, magari, hanno vissuto negli stati lungo le coste, spesso solo a New York, ma non sono mai andati negli stati interni, quelli che tanti definiscono gli “fly over states”, gli stati su cui si vola passando tra New York e Los Angeles. E sono proprio questi adoranti, tornando all’attacco a Capitol Hill, ad aver derubricato a caldo quell’assalto come un fatto di “cronaca”, opera di pochi esaltati. Purtroppo, quel gruppo, certamente violento e ripugnante, aveva dietro di sé l’appoggio, magari silenzioso e vergognato, di milioni di elettori che poche settimane prima avevano confermato il loro voto al Presidente di “Make America Great Again”. Un gruppetto numericamente limitato, indecente, eccentrico, anche comico nelle sue scelte estetiche, ma che non veniva da Marte. Era la punta di un iceberg, espressione di un pezzo assai rilevante della società americana che si era estremizzato già nei cosiddetti Tea Party, ai tempi di Obama, che vive nelle zone rurali, spesso obeso, intollerante a ogni forma di intervento pubblico nell’economia come nella vita quotidiana, che possiede più di un’arma e detesta i simboli “liberals”, cioè progressisti, da Hollywood alle università della Ivy League.  Un dato che a mio giudizio li definisce molto bene è che spesso non hanno un passaporto. Si stima, infatti, che solo il 42% dei residenti negli Stati Uniti possiede il documento che autorizza i viaggi all’estero, una percentuale che in cifre assolute significa circa 136 milioni di persone. Non studiare e analizzare questo pezzo importante della società americana, l’evoluzione delle sue scelte dopo la fine della stagione di Trump vuol dire non capire le difficoltà che Biden potrebbe affrontare nei prossimi 4 anni.

2. Quando si parla di americanizzazione della politica si suole farla coincidere con i processi di personalizzazione e spettacolarizzazione. Eppure, l’influenza del sistema politico a stelle e strisce sembra essere più ampia ed articolata, se pensiamo alla fascinazione delle élite italiane per il presidenzialismo o al controverso rapporto storico con lo stesso federalismo. Assunto quel modello quale prototipo democratico, la congruenza a quel supposto canone di perfezione è divenuta fonte di legittimità politica per i partiti italiani. Il trentennio alle nostre spalle, del resto, è anche la storia dei tentativi di trasferire quel modello in assenza delle medesime tradizioni politico-culturali e dei connessi checks and balances a stelle e strisce. Autorevoli studiosi di Stati Uniti, non a caso, hanno lamentato lo scarto «tra quanto si parla di Usa in Italia e come se ne parla». Di Stati Uniti, in altre parole, «si parla male e tanto perché tutti, come per il calcio, si sentono titolati a farlo». Come si discute di Stati Uniti in Italia? È possibile de-provincializzare la trattazione di questi argomenti in sede giornalistica?

Come accennavo in precedenza esiste un grande problema su come si parla e si scrive di Usa in Italia. A volte, come giustamente indica la domanda, pare che basti aver fatto il viaggio di nozze a New York per poter discettare della grandezza del sistema americano. Sembra essere rimasti all’epoca del mito della american way of life, dell’Americano a Roma di Alberto Sordi. Ma almeno Nando Morriconi aveva l’onestà di preferire un piatto di “maccaroni” a mostard and marmalade. Oggi purtroppo è facile verificare in presunte elite italianissime, alcune passioni culinarie, per cibi che in Usa sono oltre modo cheap. Magari sono le stesse persone che, contemporaneamente, disprezzano i tradizionali piatti di casa nostra, ovviamente amatissimi dalle elites newyorchesi. Al di là di questi episodi di colore, esiste un problema enorme di narrazione e di adesione acritica a tutto ciò che viene dagli Usa che coinvolge la politica, la società e ovviamente anche il giornalismo italiano. La fine della guerra fredda e lo scoppio del berlusconismo ha accelerato questo processo, pensiamo ai club e alle convention. Anche il famoso “contratto con gli italiani”, era una riedizione del celebre contratto con gli americani” di Newt Gingrich. Tutta la campagna a favore del presidenzialismo, della politica “capace di decidere”, del mito di avere un governo “mezz’ora dopo che si sono chiuse le urne” ha ovviamente un’origine nell’esaltazione acritica al modello Usa. Stesso discorso per chi sogna la fine della contrattazione nazionale, la limitazione del ruolo dei sindacati, del cosiddetto primato della “meritocrazia”, della “deregulation”, della “sburocratizzazione” della “privatizzazione” dei beni e servizi sociali. Anche nella lingua sui giornali e in tv si assiste a un appiattimento assoluto: ogni gruppo di lavoro è una “task force”, ogni presidente di regione è diventato “governatore”, in ogni elezione amministrativa ci sarà una regione che rappresenta l’Ohio d’Italia, ogni verifica politica è un “resettaggio”, dai tempi dell’accordo di Oslo sino a oggi, ogni via negoziale è una “roadmap”, ogni verifica dei conti è una “due diligence”. In Italia, molto più che nel resto d’Europa, inserire in uno “speech” in un “panel”, ovvero in ogni intervento in una manifestazione pubblica, una frase in inglese, magari nuova, rende tutto molto più intrigante. Salvo poi incorrere in infortuni linguistici: nei primi giorni in cui trattavo dagli Usa il tema del matrimonio omosessuale, scrivevo di “coming out” per quelle persone che dichiaravano pubblicamente la loro omosessualità. E puntualmente venivo corretto dal desk che metteva “outing”, che invece vuol dire additare qualcuno come gay. Niente: in Italia si fa outing, battaglia persa.

Ma per tornare al merito dei rapporti transatlantici e di come sono vissuti, com’è noto la politica estera americana è tendenzialmente molto pragmatica. Al di là delle contingenze, le priorità delle relazioni di ogni amministrazione sono chiare: si parte dalle grandi potenze nucleari e militari, poi i Paesi vicini, Canada e Messico, i grandi Paesi europei, tra cui l’Italia (con un’attenzione al nostro ruolo nel Mediterraneo e –una volta- nella vicenda mediorientale) ma dopo Francia e Germania, e infine le grandi potenze commerciali, dall’Africa al sud est asiatico. Ho potuto così verificare che spesso l’interesse nei confronti dell’Italia, nel governante di turno, era più per attirare i voti della comunità interna italo-americana, che per altri scopi. Totalmente opposta invece l’attenzione spasmodica degli italiani per il “Commander in Chief” e tutti coloro che lo circondano. A Washington ho vissuto e lavorato 5 anni, ma posso testimoniare la carovana di ministri, sottosegretari, presidenti di regione, sindaci, leader politici in ascesa, che hanno fatto di tutto pur di venire in Usa per avere una foto con uno speaker, un governatore, un congressman, un ministro. Più o meno la stessa storia per i presidenti del Consiglio. Una battuta, un tweet, un incontro, viene ripetuto, ribadito, ossessivamente per anni dalla nostra stampa. I più anziani tra i lettori ricorderanno Lambertow (riferito a Lamberto Dini) sino ad arrivare al celeberrimo e recentissimo Giuseppi. Ricordo ancora che un incontro tra il braccio destro di Barack Obama, David Axelrod, a Roma con Mario Monti, prima delle elezioni fece titolare nostri giornali a tutta pagina “Obama tifa Monti”. Una visione un po’ esagerata più per esigenze di politica nazionale che altro.

3. Il caso di Lauren Wolfe, la giornalista freelance la cui collaborazione col New York Times è stata interrotta a seguito di un tweet pro-Biden, ha destato forte incredulità in Italia. Regole per l’utilizzo dei social da parte dei cronisti, invero, sono presenti negli Stati Uniti e anche in Italia (art. 2 del Testo Unico dei doveri del giornalista). Al netto dei principi deontologici è utile domandarsi quanto i media italiani – in un’accezione generale – concorrano, attraverso giudizi politici emotivi, a quella polarizzazione percettiva degli Stati Uniti, che tende a fare di quel paese un campo da gioco con tifoserie contrapposte.

Com’è noto a tutti, avere un’intervista con il New York Times è il sogno di ogni politico di casa nostra. L’Obama italiano è stato uno dei titoli più ambiti da schiere di leader italiani. La stessa adorazione dei politici vale ovviamente per i giornali italiani. Se, ad esempio, sempre il New York Times manda un inviato a fare un pezzo sui “neomelodici napoletani”, certamente tutti i siti italiani lo riprenderanno. Per non parlare poi delle famose liste: c’è una rivista, Forbes, seguita nel corso degli anni anche altri, come Fortune, che ciclicamente pubblica liste delle persone più influenti del pianeta, delle donne manager più importanti, ai migliori politici under 30 e via dicendo. Basta che ce ne fosse una di passaporto tricolore che dovevamo fare articoli su articoli. Un rapporto purtroppo squilibrato che rivela un nostro certo provincialismo nel raccontare una realtà molto complicata, profondamente diversa. Uno sforzo culturale prima ancora che professionale che richiede grande umiltà e disponibilità all’ascolto, qualità non molto presenti tra i rappresentanti della mia categoria.

Marcello Campo, nato a Palermo nel 1968, ma trapiantato a Roma. Romanista, sposato e padre, laurea in Scienze Politiche alla Sapienza, allievo dello storico Pietro Scoppola, alunno del master di giornalismo di Milano IFG, un’esperienza al “Messaggero”, quindi assunto all’Ansa dal 1996. Cronista parlamentare, ha seguito i governi di Silvio Berlusconi e tutto il centrodestra. Corrispondente da Washington tra il 2009 e il 2014, dove ha seguito la presidenza Obama e la campagna presidenziale della sua rielezione del 2012. Quindi a Bruxelles, dal 2014 al 2016. Oggi lavora alla redazione politico-parlamentare sempre dell’Ansa.