I cambi di casacca nella storia repubblicana: intervista al prof. Lupo

Prendendo spunto dalle vicende dei gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle, oggetto di una lenta ma costante diaspora nella corrente legislatura, FBLab ha indagato l’andamento dei cosiddetti cambi di casacca e la dinamica relativa alla costituzione dei gruppi parlamentari, presso la Camera dei Deputati, nell’intera storia repubblicana. Nell’intervista al prof. Nicola Lupo, ordinario di Diritto delle Assemblee Elettive presso la LUISS Guido Carli, vengono quindi passate in rassegna le evidenze tratte, discutendone il rapporto con l’evoluzione del sistema politico e le leggi elettorali succedutesi.

Cambi di casacca alla Camera dei Deputati dalla prima alla XVIII legislatura (aggiornamento al 30 novembre 2020).
Dati: OpenData della Camera dei deputati

1. Un primo sguardo allo storico dei «cambi di casacca» presso la Camera dei Deputati sembra anzitutto comprovare la portata delle modificazioni intervenute nel nostro sistema politico-parlamentare col trapasso della cosiddetta Prima Repubblica. Il fenomeno conosce infatti uno scarto significativo tra l’XI legislatura (23 aprile 1992 – 14 aprile 1994) e la XII (15 aprile 1994 – 8 maggio 1996). Quali elementi storico-politici hanno attenuato la coesione dei gruppi parlamentari nella Seconda Repubblica? In che misura l’esplosione del fenomeno ha risentito del declino del party in central office? L’incidenza del fenomeno muta a seconda del segno politico dei governi in carica? Quali altre evidenze sono rinvenibili nel grafico in oggetto?

I dati che mi sono stati forniti sono molto interessanti, specie perché riguardano tutte le legislature repubblicane, anche se appaiono ancora parziali: concernono un solo ramo del Parlamento e non individuano quali e quanti siano i “cambi di casacca” plurimi, effettuati cioè dal medesimo deputato nel corso di una stessa legislatura.
La principale discontinuità è, in effetti, quella che si registra a metà degli anni ‘90, in non casuale coincidenza con il drastico cambiamento del sistema politico che si verifica in quella fase. Il mutamento della legge elettorale, da proporzionale a prevalentemente maggioritaria, e l’indebolirsi dei partiti politici tradizionali, sui quali si era fondata la Repubblica, hanno ovviamente inciso sulla tenuta dei gruppi parlamentari.
Si osserva inoltre che la capacità di tenuta dei gruppi parlamentari si attenua ulteriormente in caso di legislature lunghe e in cui si succedono governi supportati da maggioranze non coincidenti. In questo caso, infatti, il “cambio di casacca” può trovare una sua ulteriore giustificazione nella diversa posizione assunta dal partito di (originaria) appartenenza nei confronti del (nuovo) governo: con la formazione di un nuovo governo e di una nuova maggioranza si attenua il mandato a governare in ipotesi attribuito dall’elettorato all’inizio della legislatura. Quando poi, come è accaduto sia nel 2013 sia nel 2018, anche il governo formatosi all’inizio della legislatura richiede ai partiti la rottura delle coalizioni pre-elettorali, è chiaro che la tenuta dei gruppi parlamentari è tutt’altro che rafforzata.

Numero di gruppi parlamentari alla Camera dei Deputati dalla prima alla XVIII legislatura (aggiornamento al 30 novembre 2020).
Dati: OpenData della Camera dei deputati

2. La dinamica relativa alla costituzione dei gruppi parlamentari presso la Camera dei Deputati conosce invece un andamento sinusoidale con la Seconda Repubblica. Come si spiega questo fenomeno? Può delinearsi un rapporto meccanico tra legge elettorale e proliferazione dei gruppi? Come giudica la modifica al regolamento parlamentare del Senato con cui si è tentato di disincentivare la costituzione di nuovi gruppi?

Come già accennavo, dagli anni ‘90 in poi i partiti politici appaiono assai deboli e non più in grado di costituire, per i singoli parlamentari, un solido punto di riferimento né in termini contenutistici, né in termini di utilità (incarichi pubblici, ricandidatura e così via). In altre parole, la de-istituzionalizzazione dei sistemi di partito si riflette ovviamente anche in Parlamento, dove i parlamentari tendono a muoversi con maggiore autonomia: un’autonomia che, però, i partiti e i gruppi cercano spesso di comprimere attraverso regole più stringenti, le quali a loro volta portano il parlamentare, dopo settimane o mesi di “disagio”, a cercare altrove i propri punti di riferimento, e anche ad agognare la maggiore autonomia assicuratagli dall’adesione al gruppo misto (o a gruppi di nuova formazione, spesso non a caso aventi la parola “autonomia/e” nella loro denominazione).
Un contributo all’incremento dei “cambi di casacca” deriva inoltre dalla estrema variabilità delle leggi elettorali: la cattiva abitudine italiana di cambiare spesso la legge elettorale, e perlopiù alla vigilia delle elezioni, fa sì che si vanifichino anche i più elementari meccanismi per far valere la responsabilità politica e che i parlamentari non sappiano più neppure quali saranno i fattori decisivi che potranno assicurarne o meno la rielezione (o comunque il futuro politico).
Quanto alla riforma del regolamento del Senato del 20 dicembre 2017, ritengo che la nuova disciplina sulla formazione dei gruppi, laddove impone, accanto al requisito numerico, anche un requisito elettorale e laddove introduce una serie di disincentivi alla mobilità dei senatori, si muova lungo una direzione corretta. Tuttavia, la riforma accentua l’asimmetria rispetto alla Camera, ove resta sostanzialmente vigente la disciplina adottata esattamente un secolo or sono, nel 1920, secondo cui per formare un gruppo basta essere 20 deputati, a prescindere da partito di appartenenza, modalità di elezione e idee in comune.
La vicenda della costituzione del gruppo “Italia Viva-PSI” al Senato, nel settembre 2019, ha confermato come, in caso di asimmetrie tra i due regolamenti, sia la prescrittività del diritto parlamentare ad attenuarsi e, per così dire, la moneta cattiva a scacciare la moneta buona. In questo caso, grazie ad una interpretazione non impossibile, ma abbastanza discutibile e comunque evidentemente impopolare (tant’è che non risulta mai esplicitata negli atti parlamentari) del combinato disposto dell’art. 14, comma 4, penultimo periodo, e dell’art. 15, comma 3, del regolamento del Senato. È per effetto di questa interpretazione che si è derogato alla regola di fondo – posta dall’art. 14, comma 1, primo periodo – secondo cui “ciascun Gruppo dev’essere composto da almeno dieci Senatori e deve rappresentare un partito o movimento politico, anche risultante dall’aggregazione di più partiti o movimenti politici, che abbia presentato alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno, conseguendo l’elezione di Senatori”.

3. La legislatura corrente è contrassegnata dalla lenta ma costante diaspora dai gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle. «Un piccolo esercito» – come ha notato Buzzi sul Corriere della Sera del 29 ottobre scorso – che ha un peso specifico nell’attuale Parlamento superiore a Italia viva». In questo scenario sono tornate in auge le ipotesi, patrocinate anzitutto dal Movimento 5 Stelle e fatte proprie dai partiti del centrodestra, financo nel programma elettorale per le elezioni politiche del 2018, di introduzione del cosiddetto vincolo di mandato, per vietare il passaggio di un parlamentare da un partito all’altro, mediante legge di revisione dell’art. 67 della Costituzione. A questo riguardo, in data 5 febbraio 2020, l’on. Meloni (FdI) ha presentato una proposta di legge costituzionale (AC 2366). Qual è la sua opinione sull’introduzione del vincolo di mandato?

Resto convinto dell’indispensabilità del divieto di mandato imperativo in ogni democrazia: i vantaggi della democrazia rappresentativa derivano appunto da una qualche autonomia di manovra che è consentita ai rappresentanti, consentendo loro di disporre di un margine di azione e di decisione anche indipendentemente dalla pressione dei partiti e degli interessi. Un’autonomia che la trasparenza accresciuta dovuta alle tecnologie digitali già diminuisce sensibilmente, e che dovrebbe però manifestarsi in processi parlamentari più partecipati, strutturalmente aperti alla dinamica degli interessi e ripensati in profondità. Al contrario, oggi, si va alla ricerca di scorciatoie volte in sostanza ad azzerare in vario modo l’apporto dei parlamentari nei procedimenti legislativi (come la questione di fiducia su maxiemendamenti), così rendendo il processo decisionale poco trasparente e gestito pressoché integralmente, in forme ovviamente occulte, dal Governo.
L’occasione per adottare discipline di questo tipo mi pare rappresentata dal seguito che i regolamenti di Camera e Senato dovranno dare alla riduzione dei parlamentari di cui alla legge costituzionale n. 1 del 2020. Un obbligo costituzionale di rivedere i principi di organizzazione e di funzionamento delle Camere, in modo da adattarle a composizioni decisamente più ridotte. In questo ambito ben si possono immaginare meccanismi, analoghi tra Camera e Senato, volti sia a valorizzare il ruolo del singolo parlamentare (il cui peso relativo è destinato inevitabilmente ad aumentare), sia a disincentivare la mobilità tra i gruppi.
Se si somma questo elemento alle tante sollecitazioni alla digitalizzazione e all’innovazione in genere che derivano dal Covid-19 ci si avvede che nei prossimi mesi siamo davanti ad una irripetibile “finestra d’opportunità” per ripensare anche radicalmente le modalità di funzionamento del Parlamento.
La proposta di revisione costituzionale AC 2366, volta a introdurre un vincolo di mandato “di coalizione”, mi pare invece contrastare con i principi di fondo del parlamentarismo e avvicinare la forma di governo italiana a modelli di premierato del tutto assenti nel panorama delle democrazie europee (e non).
Certo, la pressione dei fuoriusciti dai gruppi del Movimento 5 Stelle è attualmente forte, e non è un caso che proprio in queste settimane si stia provando ad introdurre anche in Senato le “componenti politiche del gruppo misto”, sul modello di quanto già accade alla Camera, a partire dal 1997: una proposta che evidenzia, al solito, la difficoltà di conciliare tra loro il fine di assicurare la funzionalità di un gruppo misto attualmente composto da 29 senatori (che ne fanno il quinto gruppo più numeroso), da un lato, e l’esigenza di non introdurre nuovamente incentivi alla frammentazione e alla mobilità dei parlamentari, dall’altro.

Nicola Lupo
Professore ordinario di Diritto delle Assemblee Elettive (IUS09 -Istituzioni di Diritto pubblico) presso il Dipartimento di Scienze Politiche della LUISS Guido Carli, ove insegna anche Public Law. Direttore del Centro studi sul Parlamento (CESP), presso la LUISS Guido Carli. Nell’ambito della LUISS School of Government dirige (dal 2007) il Master di secondo livello in Parlamento e Politiche Pubbliche e (dal 2016) il Joint Master Erasmus+ in Parliamentary Procedures and Legislative Drafting EUPADRA, nonché la Summer school on Parliamentary Democracy in Europe (Jean Monnet module dal 2013 al 2015). Nell’ambito della LUISS School of Law dirige il Corso di perfezionamento in Drafting Legislativo-Tecniche di redazione degli atti normativi. Membro, sin dalla fondazione, del Comitato direttivo della Luiss School of Government.