La lobby indiana

La lobby indiana

Quando si parla di lobbying si pensa subito all’azione di influenza del processo decisionale da parte di grandi gruppi multinazionali o peggio dei c.d. ”poteri forti” (nonostante i tanti anni di professione devo ancora capire cosa siano esattamente).

Noi addetti ai lavori sappiamo bene che non è così. Certamente i gruppi d’interesse economici rappresentano un segmento rilevante nell’arcipelago di coloro che sottopongono le loro istanze al decisore pubblico ma non sono il “tutto”. Ne è la dimostrazione quanto sta avvenendo negli ultimi mesi negli Stati Uniti.

Dai libri di storia conosciamo una delle pagine più “controverse” e sottoposte anche ad un processo di revisione critica: quella che riguarda i diritti dei nativi americani. Di coloro cioè che vivevano nei territori del Nord America prima dell’arrivo dei coloni bianchi. Massacrati, annientati e successivamente assimilati nel processo storico di creazione degli attuali Stati Uniti.

I loro diritti spesso non vennero riconosciuti o risarciti soltanto in parte dalle Istituzioni di quella Nazione.

Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito ad una modificazione della percezione di quanto avvenuto in passato e quindi ad una maggiore apertura a riconsiderare la storia tenendo conto anche del punto di vista degli “sconfitti” e ciò grazie anche al contributo di autorevoli storici come Howard Zinn la cui People history of the United States è poi sbarcata ad Hollywood grazie a Matt Damon. Nei vecchi film western, tra i più famosi quelli di John Ford e John Wayne, gli “indiani” del resto erano sempre brutti, sporchi e cattivi mentre i bianchi interpretavano sempre il ruolo dei buoni. A partire dal 1990 con “Balla coi lupi” fino ad arrivare a “Hostiles” la narrazione è completamente cambiata.

Anche dal punto di vista politico e normativo le cose si sono, sia pure lentamente, modificate. Negli ultimi decenni i nativi americani hanno ottenuto importanti risultati soprattutto nelle aule di giustizia, quando sono stati riconosciuti alcuni diritti derivanti da vecchi trattati stipulati tra i popoli nativi e il governo americano e mai del tutto applicati.

Anche a Washington grazie alla creazione dell’ House’s bipartisan Native American Caucus il tema della rappresentanza delle istanze dei nativi americani comincia ad entrare nell’agenda istituzionale: durante la Presidenza Obama viene nominato un Senior policy advisor for Native American affairs alla Casa Bianca. È Kim Teehee, una donna del popolo Cherokee, da anni impegnata a vari livelli nel movimento per il riconoscimento dei diritti dei nativi americani e che diventa immediatamente la frontrunner dal punto di vista politico.La sua provenienza non è casuale: i Cherokee, infatti, rivestono un ruolo centrale in questa vicenda. Intanto perché erano uno dei popoli indigeni più strutturati dal punto di vista sociale e culturale e poi perché furono i firmatari con il Governo americano del Trattato di New Echota (1835), in cui si stabiliva la loro rinuncia a milioni di acri della terra in cui avevano sempre vissuto, la conseguente disponibilità a spostarsi in altri territori ottenendo in cambio il diritto come “Nazione Cherokee” a un delegato alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, assegnando al Congresso il compito di provvedere in tal senso. L’iter di approvazione dell’accordo fu travagliato e divisivo: da un lato venne firmato da un numero esiguo di popoli nativi e quindi poche centinaia di persone accettarono il trasferimento volontario. Dall’altro venne ratificato con un solo voto di maggioranza al Senato e firmato dal presidente Andrew Jackson nel 1836. Considerandolo però pienamente in vigore, due anni dopo, l’esercito statunitense diede vita ad una vera e propria deportazione a tappe forzate (diventata nota come il “Sentiero delle lacrime”) in cui morirono circa quattromila nativi. Un quarto di quelli coinvolti nella marcia. Analogo trattamento, nello stesso periodo storico, venne poi riservato anche ad altri popoli nativi provocando decine di migliaia di morti. Nonostante le intese, a 188 anni dalla firma, i Cherokee attendono ancora il loro posto al Congresso.

Arriviamo così ai nostri giorni. Sulla spinta dell’attenzione crescente nei confronti delle istanze dei nativi americani, la Cherokee Nation, il principale gruppo d’interesse del popolo nativo Cherokee, moltiplica i propri sforzi lobbistici grazie anche all’attivismo di Kim Teehee, diventata ormai un volto molto conosciuto nell’arena di policy di Washington. Ottenuta l’attenzione del Congresso si svolge un ciclo di audizioni per affrontare finalmente il fulcro della questione: se cioè il vecchio trattato fosse da considerarsi ancora in vigore e se quindi si dovesse riconoscere il diritto del popolo nativo Cherokee ad indicare un proprio delegato. In caso affermativo, si trattava di identificare la procedura tecnica per applicarlo.

La decisione, è bene ricordarlo, ha più un valore simbolico che pratico: l’incarico alla Camera dei Rappresentanti è infatti senza diritto di voto (come quelli in rappresentanza di Porto Rico, Guam, Isole Vergini) anche se garantisce la partecipazione al processo legislativo. Cionondimento con la decisione si affermerebbe un duplice principio: gli Stati Uniti mantengono comunque la parola data con la firma di trattati, per quanto vecchi essi siano, e che i Cherokee, in quanto firmatari del Trattato, ma in realtà tutti i nativi americani, hanno un vero e proprio diritto di tribuna.

Per Kim Teehee e la sua Cherokee Nation, il delegato al congresso diventerebbe la voce di tutti i popoli nativi americani. Lei stessa, la candidata più accreditata a ricoprire quell’incarico, ha infatti dichiarato che, in caso di nomina, sosterrà le numerose istanze di finanziamento di cui i popoli nativi hanno bisogno per l’istruzione, le infrastrutture e la conservazione del patrimonio culturale e linguistico.

Scoppiata la pandemia, questo percorso di riconoscimento subisce un drastico rallentamento, salvo riprendere a novembre 2022 quando si svolge finalmente l’audizione: un grande successo dal momento che molti dei partecipanti riconoscono la fondatezza della richiesta e la necessità di avviare l’iter amministrativo per renderla operativa. Da quel momento in poi la Cherokee Nation ha moltiplicato gli sforzi di lobbying diretto (incontrando un grande numero di membri del Congresso) e dando vita ad una forte azione di advocacy (in Tv e sui social media come Facebook e Instagram) per coinvolgere il più ampio numero di cittadini e spingerli a contattare i propri rappresentanti per convincerli a votare a favore del riconoscimento di questo diritto. Proprio in questo momento cruciale cominciano però ad aprirsi alcune pericolose fratture in seno alla constituency di riferimento. Altre popolazioni native, infatti, i cui avi avevano firmato trattati simili a quello di New Echota, hanno cominciato a rivendicare gli stessi diritti del popolo Cherokee. La spaccatura più rilevante si verifica tra i rappresentanti di questo popolo nativo.

Se fino a pochi mesi fa la rappresentatività di Cherokee Nation non veniva messa in discussione, con l’avvicinarsi dell’obiettivo si sono fatte avanti due gruppi d’interesse che contestano proprio questa primato in termini di rappresentanza. La United Keetowah Band of Cherokee Indians ha avviato una campagna di relazioni pubbliche per contrastare la narrativa che la Cherokee Nation rappresenti l’intera comunità di quel popolo di nativi mentre la Eastern Band of Cherokee Indians rivendica per lei il posto al Congresso, definendola la propria priorità legislativa per il 2023 per raggiungere la quale si affiderà a dei lobbisti professionisti. Se hai intenzione di realizzare delle cose, ci sono i lobbisti, ha dichiarato infatti Richard Sneed, il loro rappresentante.

Molto bene verrebbe da dire. Peccato che poi abbia aggiunto: come leader di una tribù lo capiamo, non è come preferiremmo fare le cose, ma questo è. Al netto di percezioni e sensibilità il rischio concreto è che questa guerra intestina determini una stasi del processo decisionale proprio quando sembrava ormai giunto a compimento.

Nulla di nuovo sotto il sole, purtroppo.