L’americanismo dopo Trump

Intervista a Bruno Settis

Già nell’ottobre 2018 – in prossimità del secondo anniversario dell’elezione di Donald Trump – una sondaggio del Pew Research Center, effettuato in venticinque paesi, rilevava la declinante presa del soft power americano. L’ostentata impronta nazionalista e unilateralista impressa da Trump al discorso pubblico americano nel biennio successivo ha aggravato la situazione, danneggiando l’immagine del Paese in Occidente, come testimonia l’ulteriore rilevazione del Pew Research Center, lo scorso mese di novembre.
Non deve dunque sorprendere se il Dipartimento di Stato, a meno di 12 ore dagli incidenti di Washington, abbia fornito alle sedi diplomatiche statunitensi una vera e propria guida «to reassure the world of the strength of American democracy», in cui vengono «outlined a series of answers to potential questions about whether US democracy is in peril or if America has lost its moral standing».

1. Dopo quattro anni di Trump alla Casa Bianca può dirsi in pezzi la reputazione americana, come sostenuto da Barack Obama? Su quali basi culturali può riporsi oggi un nuovo messaggio universalista a stelle e strisce?

La rottura di Trump con il discorso universalista è stata chiara ed esibita, con i suoi toni muscolari e la sua visione di un mondo diviso in vincenti e perdenti. D’altra parte, il discorso trumpiano si è formato all’interno di quello sull’americanismo e sulla “grandezza” dell’America nel mondo, esasperando i tratti più liberisti insieme a quelli più retrivi e autoritari. Inoltre, non va sottovalutato il fatto che esso sia stato (e sia) in sintonia con progetti conservatori che attraversano tutto il mondo atlantico: anche se a prima vista può sembrare un paradosso, il discorso nazionalista ha un forte appeal internazionale.
Il giudizio di Obama riflette anche, va da sé, un tratto caratteristico della sua presidenza: l’impegno costante per consolidare, anzi, rinnovare il prestigio degli Stati Uniti nel mondo, dopo gli anni di Bush e nel pieno della crisi economica, e per elaborare un discorso universalista rivolto a un’opinione pubblica mondiale (in Europa, in particolare, Obama ha sempre goduto di vasta popolarità). Se il messaggio di Biden appare per molti versi simile a quello di Obama, sono invece profondamente diversi il contesto generale e, ovviamente, il predecessore da cui deve marcare le distanze. «America is back» era già uno slogan della campagna elettorale; è stato ripetuto nel discorso del 4 febbraio sulla politica estera, in cui Biden ha ribadito la volontà di reinserirsi pienamente in una trama di relazioni diplomatiche e accordi internazionali, che per gli Stati Uniti comportano responsabilità e anche vincoli, e che Trump sentiva esclusivamente come tali. Ciò è necessario per affrontare sfide globali che richiedono cooperazione globale: in primo luogo crisi pandemica, in continua evoluzione, e cambiamento climatico (non si parla di crisi economica, che per ora è gestita come crisi sociale interna, ma va da sé che è qualcosa di più di uno spettro). Nei primi giorni di presidenza, caratterizzati da un’attività intensissima di executive orders, Biden ha avviato il ritorno degli Stati Uniti negli accordi di Parigi e nell’Organizzazione mondiale della sanità.
Nel discorso inaugurale del 20 gennaio e in quello del 4 febbraio, Biden ha anche ribadito la necessità di coniugare «the example of our power» a «the power of our example». Il messaggio universalista di Biden (e Harris) in questo senso, in continuità con Obama, rappresenta l’America come sintesi di tutto il mondo, come un paese intrinsecamente globale. Riprende quindi un linguaggio dei diritti, in primo luogo a livello interno. Ad esempio, rispondendo anche alle pressioni dei movimenti sociali dell’anno scorso, ha individuato come nemico il “razzismo sistemico”.

2. Per molti decenni in Europa e in Italia, in particolare, un assunto è risultato autoevidente nel discorso pubblico: «what is good for America is good for the world» e viceversa. Nell’enfasi sul movimento, sul cambiamento e sulla velocità, William Woodruff individuava gli elementi attrattivi del modello americano di società per gli europei. La mobilità sociale cui rimandavano era del resto un valore cardine dell’universalismo americano. Come cambiano le relazioni pubbliche internazionali di un paese diviso all’interno e minacciato all’esterno (o che tale si percepisce)?

Questa idea degli Stati Uniti andrebbe forse vista sul lungo periodo: è da decenni che gli Stati Uniti sono o si percepiscono così, e che questo contribuisce a condizionare politica interna e politica estera, sia nella proiezione internazionalista che negli atteggiamenti di solito chiamati “isolazionisti”. Attorno alla promessa di «Make America Great Again», Trump ha portato avanti una strategia di ostentate contrapposizioni tra egoismi nazionali, guerre commerciali e polemica verso le istituzioni internazionali; all’interno, ha cavalcato la retorica populista contro le élite ma in sostanza immaginando un popolo di bianchi, possibilmente benestanti e armati, che si sentono minacciati dalla perdita dei loro privilegi, piccoli o grandi, reali o simbolici. Retorica percorsa da tentazioni eversive, esplose infine nel bivacco a Capitol Hill. Di fatto però, come è stato rilevato dagli osservatori più attenti (penso in Italia a Mario Del Pero), a livello economico-sociale ha seguito un’agenda conservatrice tradizionale, che ha in parte smantellato le innovazioni di Obama e ha ritardato la risposta alla pandemia e al suo impatto sociale.
Biden pare imboccare la strada opposta: all’interno, promette unità e lotta alle diseguaglianze, combinando, almeno per ora, principi moderati e progressisti; all’estero, lancia messaggi di collaborazione. Vuole riaffermare la leadership degli Stati Uniti nel sistema internazionale, in particolare contro la crescente importanza della Cina, che negli scorsi anni si è trovata a riempire il vuoto lasciato da Trump (si ricordi, ad esempio, il discorso di Xi Jinping a Davos quattro anni fa sulla globalizzazione). Appare nitida la volontà di ricucire il multilateralismo che Trump aveva mandato all’aria, un multilateralismo in cui gli Stati Uniti sono abituati ad avere responsabilità e vincoli, ma anche a godere di primati e privilegi di fatto. In questo rilancio dell’internazionalismo con gli Stati Uniti al centro, vi sono, inoltre, aspetti da non trascurare: con un executive order del 25 gennaio, Biden ha dato indirizzo all’amministrazione federale di comprare soprattutto prodotti statunitensi. E’, ovviamente, anche un messaggio di “buy American” ai consumatori statunitensi.
Mi viene da ricordare, infine, che l’assunto «what is good for America is good for the world» ricalca una famosa frase attribuita a Charles E. Wilson, presidente della GM e poi segretario alla difesa di Eisenhower: «what is good for General Motors is good for the country», e viceversa.

3. In che misura l’americanismo costituisce ancora un volano dei grandi brand statunitensi e quali riflessi può avere sugli stessi la recente crisi reputazionale di Capitol Hill?

Dalla fine del diciannovesimo secolo e nel corso del ventesimo, l’ascesa degli Stati Uniti è stata caratterizzata dall’alleanza tra la dimensione commerciale, quella tecnologica e quella simbolica. La storica Victoria De Grazia ha intitolato il suo libro di quindici anni fa L’impero irresistibile per la sua capacità di conquistare i mercati europei, ma anche le abitudini di consumo, i cuori e le menti. L’ascesa è stata forse meno lineare e trionfale di quello che il questo titolo suggerisce: basti pensare all’espansione del fordismo, da Detroit al mondo, il quale però è stato contestato ovunque per i massacranti ritmi di lavoro che imponeva. Il rapporto tra americanismo politico ed economico è stato ancor più stretto dopo la Seconda guerra mondiale, a partire dalla ricostruzione europea sotto l’egida del Piano Marshall, per arrivare agli anni più recenti della diffusione dell’elettronica e dell’informatica. In questo, ha messo radici profonde, nelle strutture economiche così come nelle abitudini e direi persino nelle mentalità. La prontezza ad accogliere il cambiamento di rotta dimostrato da Biden, da parte dei media europei, anche a costo di grossolane semplificazioni, mostra una costante disponibilità a recepire il discorso internazionalista proveniente dal Presidente degli Stati Uniti – e a recepirlo come qualcosa che riguarda direttamente anche noi. Più ampiamente, si tratta di un’influenza che va più in profondità degli eventi politici, per quanto spettacolari o traumatici. D’altra parte, se il prestigio statunitense appare minato, non altrettanto può dirsi della sua capacità di influire sull’immaginario e sulla cultura di massa. Statunitensi sono i film più visti e la musica più ascoltata in Europa, statunitensi le piattaforme di streaming più diffuse.
Aggiungerei un’osservazione. È difficile porsi questa domanda senza chiedersi allo stesso tempo quanto siano statunitensi i grandi brand statunitensi. In un’economia freneticamente interconnessa a livello globale, i rapporti di produzione e i rapporti di proprietà si estendono su catene e reti mondiali, prima che i prodotti si rivolgano ai mercati globali. Tra gli spot del Super Bowl di pochi giorni fa, spiccava quello della Jeep con protagonista Bruce Springsteen, incentrato sulla simbologia dell’americanismo e della riconciliazione nazionale (fino a concludersi con le parole ReUnited States of America): come è noto Jeep è un marchio Chrysler, a sua volta inclusa nel gruppo FCA e, da qualche mese, nel colosso atlantico Stellantis, sotto il quale però rimarranno in vita i vari brand con tutta la loro aura – compresi Fiat, Alfa Romeo, Opel, Peugeot…

4. Il risultato della più recente indagine sulla percezione degli Stati Uniti nel Vecchio Continente, realizzata dall’European Council on Foreign Relations di Bruxelles, rivela che per la maggioranza degli europei: il sistema politico americano è guasto; la Cina sarà più potente entro un decennio; in caso di guerra tra le due sponde del Pacifico non bisognerebbe mobilitarsi accanto agli Stati Uniti ma restare neutrali. La ricerca, vale la pena sottolineare, è stata compiuta fra novembre e dicembre del 2020, dunque prima dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio scorso. Se venisse, quindi, ripetuta le evidenze – con ogni probabilità – potrebbero essere ancora più nette. Se molte riserve si nutrono circa l’effettivo sorpasso strategico della Cina sugli Stati Uniti, tanto nel breve quanto nel medio periodo, vale la pena domandarsi di quali timori si nutre il supposto declino americano e come possa confutarsi tale percezione.

Nell’articolo che illustra e prova a interpretare l’indagine dell’ECFR, Ivan Krastev e Mark Leonard parlano di una sorta di rovesciamento rispetto al 2003, l’anno della guerra all’Iraq: mentre allora la leadership statunitense sembrava incontestabile ma Bush riscuoteva poche simpatie tra gli europei, oggi gran parte di questi si sentirebbero in sintonia con la proposta di Biden ma non sarebbero più convinti del primato statunitense. Si evidenziano maggioranze (anche amplissime, in Spagna, 79%, in Portogallo e in Italia, 72%) che vedono probabile o certo che nel giro di dieci anni la Cina diventi più potente degli Stati Uniti. D’altra parte, non è molto chiaro cosa significhi “più potente”, per l’indagine e per chi vi ha partecipato; e altre delle categorie usate nell’analisi, soprattutto in ambito politico, appaiono piuttosto discutibili.
“Declino” è un concetto estremamente scivoloso e, del resto, indica in primo luogo una percezione: lo sappiamo se non altro perché il declino degli Stati Uniti è stato annunciato a più riprese, a partire almeno dagli anni ’70. Vi è una tradizione di discorso ‘declinista’ sul loro ruolo nel mondo che ha contribuito a plasmare opzioni e strategie di politica economica, commerciale ed estera.
Quanto al confronto con la Cina, ricordiamo tutti come fino a una decina, dozzina d’anni fa l’atteggiamento comune in Europa fosse di guardare ad essa come serbatoio di manodopera a buon mercato per imprese multinazionali e fucina di prodotti di basso costo e scarsa qualità. Un simile atteggiamento ha a lungo impedito di comprendere portata e qualità dei processi in corso nella Repubblica Popolare, nel suo apparato produttivo, nella sua struttura di consumi, e ovviamente nelle sue relazioni con il resto del mondo. “Made in China 2025” è il titolo orgoglioso di un piano di sviluppo e innovazione, avviato nel 2015, concentrato su settori di avanguardia. Ma proprio in quei settori dove i prodotti cinesi hi-tech sono più diffusi si sono scatenate aspre guerre commerciali, sempre tendenti a debordare in scontri politici, come nei casi di Huawei e TikTok. D’altra parte, tanto tangibile è la presenza di prodotti di origine cinese in ogni ambito della nostra vita quotidiana, quanto evidente l’assenza di prodotti culturali e di entertainment. In questo ambito, come accennavo prima, il protagonismo dell’industria culturale statunitense sembra incontestato.
Certo lo spostamento di aspettative degli europei dagli Stati Uniti alla Repubblica Popolare, di cui parla in modo forse un po’ troppo drammatico l’indagine ECFR, paradossalmente converge con una relativa perdita di attenzione strategica degli stessi Stati Uniti verso l’Europa a favore dell’Asia e della Cina. Su quest’asse l’amministrazione Biden si trova a gestire gli stessi problemi di Trump, vedremo la differenza nelle risposte: per ora, da parte del presidente e del segretario di stato Blinken, si sono ostentati toni duri nel rimarcare che la leadership globale spetta agli Stati Uniti. Se avessi dovuto rispondere al sondaggio ECFR, non avrei scommesso sul semplice sorpasso: si ha semmai l’impressione che il mondo stia diventando non bipolare, ma policentrico, e che continuare a giocare allo scontro frontale per la leadership globale porterebbe solo alla comune rovina delle parti in lotta.

Bruno Settis è assegnista di ricerca in Storia contemporanea alla Scuola Normale di Pisa. È autore di Fordismi. Storia politica della produzione di massa (Bologna: Il Mulino 2016, premio Sissco Opera Prima).