Introduzione
Oggi la Corte costituzionale potrebbe dare il via libera definitivo ai referendum su cannabis ed eutanasia. Con quasi due milioni di firme ottenute (nel complesso), anche grazie all’introduzione della possibilità di raccolta online, i due referendum hanno aggregato un numero impressionante di sostenitori. C’è chi in questo vede un’urgente necessità di partecipazione. Addirittura, questa richiesta di essere ascoltati, apparentemente spontanea, dimostrerebbe lo scollamento tra Parlamento e società civile, tra alto e basso, tra priorità della politica politicante e bisogni reali. Ma è, effettivamente, così? Detto in altro modo: questo bisogno di partecipazione è reale, oppure indotto dalla politica, per aggregare consenso?
È la storia che si ripete, con uno storytelling consolidato. Da un lato, la politica che, arroccata in una torre d’avorio, rimarrebbe sorda alle richieste della società civile; dall’altro, la mobilitazione popolare, dal basso, inarrestabile, che cavalca i bisogni reali, ponendoli all’attenzione del pubblico decisore. Eppure, non di rado la montagna ha partorito il proverbiale topolino, nel senso che a poderose mobilitazioni (anche mediatiche) non è poi corrisposta un’effettiva partecipazione alle urne.
Per questo FB Bubbles, divisione di FB&Associati specializzata in analisi del dibattito pubblico e campagne di advocacy, ha preso in esame le dinamiche del dibattito social e politico-istituzionale sulle varie richieste di partecipazione diretta, per provare a comprendere se questo bisogno di coinvolgimento sia reale oppure, indotto e se – in quest’ultimo caso – rappresenti uno strumento a disposizione della politica per aggregare consenso attorno ad una tematica.
Il dibattito
L’Italia ha una storia importante di partecipazione diretta. Tramite referendum, infatti, il nostro Paese ha preso decisioni storiche, ad esempio confermando il divorzio (nel 1974) e l’aborto (nel 1981) contribuendo, così, a modellare l’ordinamento. Negli anni ’90 il ricorso allo strumento referendario ha raggiunto il suo acme. Nel pieno della crisi della Prima Repubblica si sono tenuti i referendum sulla legge elettorale (1991) e sul finanziamento pubblico ai partiti (1993). Si è assistito allo scontro tra due diversi modelli di partecipazione popolare, quello diretto e quello rappresentativo: se la perdita di credibilità della politica portava gli elettori a rifugiarsi nell’astensione,con il trend negativo dell’affluenza dal ‘92 ad oggi (fatta eccezione per il 2006), secondo una consolidata narrazione sarebbe dovuta esplodere una domanda di partecipazione diretta dei cittadini per riempire gli spazi lasciati vuoti dalla democrazia rappresentativa.
Ad una prima lettura, il racconto sembrerebbe confermato anche nei primi anni 2000. Durante questo decennio, a fronte della disaffezione nei confronti del sistema rappresentativo, molte sono state le mobilitazioni popolari, giovanili e studentesche che, sempre secondo la narrativa imperante, sarebbero la prova del crescente bisogno di partecipazione diretta, che proprio nella democrazia rappresentativa non avrebbe trovato risposte. Il conflitto si è trascinato fino ai giorni nostri, con il successo alle ultime elezioni del M5S, fautore senza riserve della democrazia diretta, e con la proposta di referendum propositivo e di elezione diretta del Capo dello Stato, sostenuta tra gli altri da Giorgia Meloni e Matteo Renzi.
A comprovare quanto sia avvertito il tema della partecipazione popolare arrivano i volumi del dibattito pubblico e politico online. Con significative impennate di salienza in concomitanza con gli accadimenti chiave, lo strumento del referendum è stato menzionato in rete 700 mila volte negli ultimi 13 mesi, raccogliendo complessivamente un engagement di oltre 7 milioni di interazioni. In maniera incontrovertibile, dunque, il tema ha dominato le conversazioni online ed è stato presidiato da un variegato ventaglio di realtà, dalle associazioni di categoria alla politica, dagli attivisti a personaggi pubblici e influencer.
Sembrerebbe trattarsi di un sostegno quasi incondizionato, e soprattutto collettivo, ad una modalità di fare politica che spesso, almeno in apparenza, sembra essere l’ultima risorsa, ossia l’opzione a cui la società civile ricorre quando l’establishment politico appare poco reattivo, o eccessivamente condizionato.
Non sempre, tuttavia, all’indizione di un referendum ha corrisposto l’effettiva partecipazione popolare. Nel 2011, ad esempio – dopo un’importante campagna da parte di tv, giornali e social media – i quattro referendum su acqua pubblica e nucleare superarono solo di poco il quorum. Ancora, nel 2016, nonostante una martellante campagna mediatica, si risolse in un nulla di fatto la consultazione sulle trivelle, che portò al voto solo il 31.19% degli aventi diritto. Mentre falliva sul nascere quest’ultima iniziativa, nello stesso anno ha sfondato la soglia del 65% di affluenza il referendum sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi, che segnò la fine dell’esperienza del primo a Palazzo Chigi. Quattro anni dopo, sullo stesso tema (ossia, su una riforma costituzionale) ha partecipato al referendum sul taglio dei parlamentari quasi il 15% in meno di elettori. Sui termini della narrativa referendaria sembrano allora potersi nutrire delle perplessità.
Come spiegare affluenze così diverse, al netto dell’oggetto specifico della consultazione? Qual è, in altre parole, la variabile (o almeno, una delle variabili) in gioco? La politica. Anche negli ultimi anni, il successo partecipativo delle consultazioni referendarie sembrerebbe essere dipeso, in qualche maniera, proprio dall’atteggiamento che la politica ha tenuto nelle singole occasioni. Si pensi al referendum costituzionale del 2016, particolarmente caro alla maggioranza di allora (incredibilmente partecipato) e al referendum (dello stesso anno) sulle trivelle che, in certa parte osteggiato dall’Esecutivo, non raggiunse il quorum. È naturale che la politica sia una delle variabili, ma tanto basta per dire che la vulgata che vorrebbe la domanda insopprimibile di partecipazione diretta alla vita democratica contrappostasenza riserve alla politica rappresentativa sarebbe, almeno in parte, retorica.
L’importanza del ruolo della politica sembra confermata anche nel dibattito social. Si pensi alla proposta di referendum sulla giustizia, sul quale si registrano metriche piuttosto simili a quelle per cannabis ed eutanasia, ma rispetto al quale emerge maggior equilibrio nel gioco di autori unici – stakeholder istituzionali. In questa occasione, infatti, a fronte dei 13 mila autori unici appartenenti alla società civile esposti sull’argomento, sono più di 500 i politici che, attraverso i propri canali, hanno veicolato contenuti nel merito. Una motivazione piuttosto intuitiva potrebbe trovarsi proprio osservando il promotore dei 6 quesiti referendari sulla giustizia: la politica. Si tratta infatti di un’iniziativa di Lega e partito Radicale,supportati nella raccolta firme da Forza Italia, Nuovo PSI, UdC e PSI. Dunque, sono state le forze politiche ad aver esplicitamente chiesto di interpellare la popolazione, dando prova di come questo strumento possa essere, anche apertamente, utilizzatodirettamentedalle forze politiche.
Viaggia su un crinale scivoloso la questione del presidenzialismo. Che il trend di salienza sia in crescita negli ultimi mesi è indubbio (da novembre ad oggi ha collezionato un volume di 180 mila interazioni) raggiungendo i massimi picchi a fine gennaio, a ridosso della corsa al Quirinale. Da dove viene la richiesta di un’elezione popolare diretta? È davvero la cittadinanza a domandare di scendere in campo per eleggere il Capo dello Stato, oppure sono le forze politiche che muovono la pedina del presidenzialismo attendendo la contromossa dell’opinione pubblica? Pur essendo difficile dare una risposta certa, riproponendo lo schema degli autori unici si appura che il rapporto società civile – stakeholder istituzionali è di 3 mila a 280, con un massiccio dominio di Fratelli d’Italia (40 rappresentanti). In questo caso, il dibattito è presidiato principalmente dalla politica.
Conclusioni
La narrazione che vuole contrapposti politica e referendum e che riduce la loro relazione allo schema alto contro basso, politica contro cittadini, appare opinabile. Piegare, infatti, l’unico strumento di partecipazione diretta che la Costituzione sapientemente ha previsto ad un’occasione di scontro tra popolo e Palazzo, come in un moderno conflitto Davide contro Golia, non gli rende giustizia. Il referendum è, infatti, anche uno dei tanti strumenti con cui la politica, intesa nel senso più ampio del termine, può portare avanti una battaglia, schierandosi per il Sì, per il No o promuovendo l’astensione. Non si tratta, beninteso, di un rapporto causa-effetto di chirurgica precisione. Il successo di una consultazione dipende da molti fattori, quali il tema, il contesto, la capacità di una issue di suscitare empatia nell’elettore e, non da ultimo (appunto), l’orientamento delle forze politiche sul punto. È una commistione di ragioni e combinazione delle stesse, in cui il confine tra volontà popolare ed indirizzo politico sfuma sino a diventare invisibile.
Una cosa è certa: quando si parla di partecipazione diretta, la politica non rimane in silenzio.