Il seguente articolo è un’anticipazione di un più esteso report annuale realizzato da MR&Associati teso a osservare e valutare gli attuali scenari del mondo della comunicazione nell’ottica di fare previsioni sul prossimo futuro del mondo digitale e cercare di anticiparne le tendenze.
Lo scontro tra Ucraina e Russia accende il dibattito su un dettaglio che non deve essere trascurato se si considera il ruolo delle notizie nelle decisioni che muovono lo scacchiere geopolitico: si sta comunicando la guerra o informando sul conflitto in corso?
È ormai evidente che questa guerra non sia combattuta solo armi convenzionali. Affianco ai bombardamenti e ai corridoi umanitari, oltre alle città distrutte e alle mobilitazioni, c’è uno scontro parallelo che coinvolge, seppur indirettamente, tutto il mondo. Si tratta della guerra mediatica che divampa online a colpi di fake news, propaganda, notizie non verificate e articoli clickbait. E il controllo delle informazioni è l’arma principale con cui si combatte.
Tutta la crisi ucraina è stata costellata da dichiarazioni, videomessaggi e propaganda che hanno portato la cosiddetta information warfarea ricoprire un ruolo così importante. Dal discorso televisivo del presidente Vladimir Putin prima dell’invasione, alla necessità di animare la reazione ucraina, così come di orientare l’interpretazione prevalente della guerra da parte dell’opinione pubblica internazionale e, conseguentemente, le scelte degli alleati euroatlantici. Senza contare come le stesse parti in causa abbiano, talvolta, abusato dei social: dalla poderosa macchina di disinformazione russa, all’impiego di VKontakte e Telegram come strumenti di propaganda, dai 26 milioni di follower del presidente Volodymyr Zelensky, a quella che il New Yorker ha definito “the first TikTok War”.
Tuttavia, il principale problema di una copertura mediatica così pervasiva è la scarsità di fonti neutrali. Da un certo punto di vista nulla di nuovo: l’opacità del contesto bellico, la segretezza delle operazioni e il tentativo di ottenere il maggior sostegno internazionale possibile, sono elementi con cui i media hanno avuto sempre a che fare. Che in guerra l’informazione sia in qualche modo secondaria rispetto alla funzione comunicativa è purtroppo assodato, ma la specificità del caso ucraino consiste nel quasi totale superamento della “fotografia ufficiale”, quella tradizionalmente scattata dai reporter e ripresa dalle televisioni. Oggi chiunque, anche con un semplice cellulare, è in grado di documentare quanto stia accadendo e questo se da un lato agevola la comprensione il conflitto, dall’altro innesca un meccanismo per cui notizie e immagini diventano facilmente oggetto di manipolazione e strumento di propaganda. Dunque, armi.
In questo modo si crea quello che in gergo tecnico viene chiamato “ambiente informativo complesso”, che innesca una serie di dinamiche disfuzionali all’informazione. In primis, il flusso continuo di contenuti (spesso amatoriali) sui social network e la scarsità di informazioni raccolte sul campo da fonti indipendenti costringe i media tradizionali a inseguire la notizia, invece di fornirla; in secondo luogo, viene tolto l’intermediario perché, correndo il giornalismo a ritmi sempre più frenetici, i media riducono il controllo (che dovrebbe essere imprescindibile) delle fonti, abdicando al proprio ruolo di filtro; in terzo luogo, l’uso strumentale delle informazioni crea dei flussi di notizie che si riversano online, su siti di news, social e chat, nella maggior parte dei casi in maniera confusa e priva di contestualizzazione; e infine, si crea la sensazione che numerosi avvenimenti trasformati in notizie non rispondano ai criteri della “notiziabilità”, ma siano piuttosto vettori per sostenere obiettivi politici dell’una, dell’altra parte, o addirittura di soggetti terzi.
Quella in Ucraina è una guerra moderna che, dunque, si combatte anche sul campo della comunicazione. E, come abbiamo visto, la caratteristica principale di una information warfare è alimentare, attraverso la manipolazione e la disintermediazione delle informazioni, un flusso dinotizieche si rincorre a ritmo frenetico, privo di controllo e – spesso – di fondatezza. E in un simile scenario a giocare un ruolo strategico sono proprio i social network, piattaforme sulla quali, al netto di determinate restrizioni, gli utenti possono pubblicare contenuti (anche) di dubbia provenienza e condividere il proprio pensiero. Spesso, durante questi mesi di guerra, abbiamo infatti letto che i media hanno svolto più che altro il ruolo di megafoni delle rispettive propagande.
Sarebbe, tuttavia, troppo semplice – quanto ingiusto – liquidare i media digitali come veicolo di peggioramento della qualità delle informazioni e acceleratori della polarizzazione. Il loro ruolo è indubbiamente più complesso: se da un lato è vero che sono facilmente oggetto di manipolazione e propaganda e luogo in cui prolifera la disinformazione, dall’altro lato si rivelano canali informativi utili che spesso fanno la differenza agevolando le possibilità di comprensione e creando maggiore consapevolezza in merito a quanto stia accadendo.
Dopo undici mesi di conflitto l’impressione, dunque, è che l’informazione stia ricoprendo una funzione secondaria rispetto a quella comunicativa. Perciò, in un ambiente informativo così complesso e confuso, monitorare e tenere sotto controllo lo stato di salute dell’informazione diventa cruciale non solo per comprendere il conflitto ma anche per il mantenimento della sicurezza internazionale che, di fatto, ne viene influenzata. Proprio per questo, la frequente incapacità dei media nell’aiutare a consumare in modo consapevole le notizie genera il bisogno di acquisire autonomamente quegli strumenti necessari a non essere consumatori passivi di notizie – o presunte tali.