Stati Uniti, Cina e Italia, nel quadro globale. Intervista a Paolo Guerrieri

1. Da oltre settant’anni la politica estera di Washington è la variabile che più contribuisce a determinare il quadro internazionale, i suoi equilibri e i rapporti tra gli attori. Lo stesso multilateralismo è una cornice in cui gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo da protagonisti. Dopo quattro anni di Donald Trump e America First, però, l’ordine mondiale come lo abbiamo conosciuto appare in subbuglio. Cosa ne sarà del multilateralismo nel prossimo futuro? È verosimile una qualche forma di supplenza egemonica da parte della Cina? L’Italia quale ruolo può giocare a livello internazionale, alla luce della presidenza del G20?

L’ordine multilaterale guidato dagli Stati Uniti nel ruolo di paese guida che aveva accompagnato la fase d’oro della globalizzazione, durata dall’inizio degli anni Novanta alla grande crisi economico finanziaria del 2008-2009, era già entrato in crisi ormai da diversi anni. Un sistema che avrebbe avuto bisogno – e da tempo – di profonde riforme in modo da tener conto dei nuovi rapporti di forza affermatisi a livello globale col passaggio dell’economia mondiale dall’assetto bipolare (Stati Uniti ed Europa) a quello tripolare (Stati Uniti, Europa e Cina-Asia del Pacifico). L’ascesa così rapida della Cina è stato senza dubbio il fattore che più ha destabilizzato l’odine multilaterale ereditato dal dopoguerra. Ma le riforme non sono venute ed è arrivato il ciclone della Presidenza Trump.

Se è facilmente prevedibile che la crisi pandemica del Covid-19, colla sua decisa riaffermazione della dimensione nazionale, accelererà e intensificherà queste tendenze, per nulla chiaro è verso quale futuro assetto delle relazioni economiche internazionali ci si indirizzerà, se non che sarà assai diverso dal passato. Una plausibile ipotesi è una complessa fase di transizione (interregno) caratterizzata dall’attuale assetto tripolare, privo di una leadership nazionale dotata di reale efficacia e quindi in un vuoto crescente di capacità di governance globale. Gli Stati Uniti, pur se Biden cercherà di rilanciare un approccio multilaterale in chiave pragmatica, non appare più in grado di esercitare un efficace ruolo di leadership a livello internazionale, per le divisioni e debolezze interne che oggi li caratterizzano.

La Cina sta cercando di approfittare della crisi per occupare gli spazi disponibili, ma la sua offerta di leadership è ancora molto limitata e per nulla comparabile al ruolo esercitato in passato dagli Stati Uniti. Si può comunque prevedere che tra i due colossi dell’economia mondiale le tensioni e i contrasti continueranno e domineranno la scena politica globale anche nel prossimo futuro, soprattutto in campo tecnologico. Anche se Biden cercherà di attenuare l’intensità dello scontro bilaterale dando più risalto allo strumento negoziale e al ruolo delle alleanze con Europa e Paesi asiatici (Giappone, Corea, India…) per costruire un fronte più esteso di paesi in grado di fronteggiare la superpotenza cinese.

L’interesse dell’Italia in campo internazionale è oggi strettamente legato a quello dell’Unione europea. In un mondo tripolare dominato dai rapporti di forza tra i grandi poli più che dalle regole l’unica dimensione possibile per contare a livello internazionale per il nostro paese come per gli altri paesi europei è quella dell’Unione. Per cui l’Italia dovrebbe agire per influire sulle strategie e politiche dell’Ue che è oggi di fronte a grandi scelte e grandi responsabilità (sul ruolo dell’Ue vedi poi)

2. Agli occhi dei critici, i quattro anni di presidenza Trump raccontano la storia di un Presidente il cui approccio contraddittorio alla politica estera non ha che contribuito a irrigidire i nemici e allontanare gli alleati. Che molto non funzioni a quest’ultimo riguardo è peraltro dimostrato, tra le altre cose, dalla disputa commerciale Airbus vs Boeing e dai dazi che ne sono derivati. Quali variabili informano le relazioni tra Stati Uniti ed Europa in questa fase e quali scenari si delineano? In che misura la strategia franco-tedesca, per agevolare la creazione di campioni industriali e tecnologici europei, può contribuire a fare dell’Europa un contrappeso nel confronto sistemico Stati Uniti – Cina?

I quattro anni di Trump hanno vieppiù accentuato il passaggio dal vecchio ordine multilaterale internazionale a un sistema di relazioni dove i rapporti di forza più che regole e istituzioni governano le relazioni economiche tra paesi. L’unilateralismo e la politica neomercantilistica dell’uscente Presidente americano hanno portato a un ulteriore indebolimento delle regole e istituzioni multilaterali nel tentativo di rafforzare un modello ‘hub and spoke’ con gli Usa al centro. Una strategia che non ha portato a concreti risultati per gli Stati Uniti. La ridefinizione di molti accordi commerciali in chiave bilaterale operata da Trump è stata più che altro un’operazione di facciata. Il più eclatante fallimento è derivato dallo scontro con la Cina conclusosi per ora con un peggioramento del deficit commerciale americano e nessuna concessione di Pechino sul fronte del mercato interno cinese.

Dopo gli anni di unilateralismo e isolamento di Trump è del tutto ipotizzabile che la Presidenza Biden segnerà un cambiamento profondo. Il che comporterà innanzi tutto per la nuova Amministrazione ridisegnare in modo pragmatico un approccio multilaterale e internazionalista, rivalutando il ruolo degli accordi e ricostruendo la rete di alleanze in Europa e Asia.

E per i paesi europei, che in questi ultimi anni dall’Amministrazione Trump sono stati considerati dei concorrenti più che degli alleati, Biden rappresenterà una grande opportunità di ricucire le relazioni transatlantiche. A partire dai rapporti commerciali che valevano – non va dimenticato – circa un trilione di dollari, più di un terzo di quelli tra Stati Uniti e Cina, alla fine dello scorso anno. Le due sponde dell’Atlantico vantano oggi un comune interesse per il ‘fair trade’, da condizionare al rispetto di parametri di sostenibilità ambientale e sociale, rispetto al mero ‘free trade’. Ciò offrirà opportunità di accordi commerciali su singoli comparti dove sono presenti potenziali vantaggi reciproci (ad esempio strutture medicali, prodotti ambientali e alcuni servizi). Anche se è da escludere la possibilità di nuovi accordi commerciali quali il fallito TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) lanciato durante la Presidenza Obama. Un grande ostacolo resterà l’agricoltura unitamente agli scambi di prodotti agricoli e così l’agenda digitale e la tassazione dei grandi gruppi del WEB. Le maggiori opportunità di intesa riguarderanno le politiche ambientali che Biden vuole profondamente innovare riportando l’America nell’ambito dell’accordo di Parigi del 2015. Sarebbe un cambiamento davvero importante per tutti e in particolare per l’Europa che ha fatto della lotta al cambiamento climatico la sua strategia di crescita dei prossimi anni.

L’Europa troverà dunque in Biden un interlocutore importante ma dovrà modificare non poco le sue scelte e i suoi comportamenti. Sarebbe grave, ad esempio, illudersi di poter tornare a rappresentare l’asse centrale della politica economica estera americana, che ormai da molti anni è spostato verso l’Asia del Pacifico. E poi si tratterà di definire una buona volta una politica meno ambigua nei confronti della Cina, che sia in grado di tenere insieme logica commerciale e strategica. Più in generale l’Ue deve rafforzare la propria presenza nel mondo. Si tratta di cogliere l’opportunità del nuovo mondo del post-Covid per ridefinire un ruolo più autonomo e sovrano dell’Europa a livello internazionale. In un libro uscito da poco (P. Guerrieri e P.C. Padoan, L’economia europea tra crisi e declino, Il Mulino) si individuano tre fronti prioritari su cui intervenire a livello economico per rafforzare questo ruolo internazionale dell’Europa.

  1. Innanzitutto, è necessario correggere l’attuale eccessiva dipendenza esterna della crescita europea, dalle esportazioni e dai surplus commerciali, come avvenuto nell’ultimo decennio, dando più spazio agli investimenti e al mercato interno europeo.
  2. Poi, va messa in atto una più ampia ed efficace strategia di politica commerciale e degli investimenti esteri, anche per mantenere uno spazio il più possibile aperto a livello internazionale.
  3. Infine, è necessario colmare il ritardo che l’Europa ha accumulato in questi anni nella sfida competitiva e tecnologica a livello globale, soprattutto nei confronti di Stati Uniti e Cina. La credibilità della politica internazionale di un Paese o di un’area dipende, tra gli altri fattori, dalla forza del suo apparato produttivo e tecnologico e questo vale anche per l’Europa.

C’è oggi maggiore consapevolezza in Europa di queste necessità ma i passi da fare sono ancora molti. L’ostacolo maggiore sono i contrasti e le divisioni tra i paesi membri che hanno impedito in passato e potrebbero continuare a impedire di muovere nelle direzioni necessarie.

3. Lo scorso mese il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato il World Economic Outlook, dal quale si evince chiaramente che il vantaggio competitivo di una economia, in questa fase, passa principalmente dalla tutela della salute pubblica. Le economie avanzate dell’Estremo Oriente, nel complesso, tengono, infatti, un passo diverso dal resto del mondo. Che si tratti di uno snodo storico fondamentale si evince anche dalla “ricetta” economica caldeggiata dallo stesso FMI, in cui hanno fatto capolino le richieste di sospensione dei vincoli di bilancio, aumento delle tasse ai più ricchi, prelievo sui patrimoni e investimenti pubblici: un programma che in era pre-Covid sarebbe stato ad appannaggio soltanto di governi marcatamente progressisti. A cosa stiamo assistendo?

In questa ultima fase di ripresa globale si è manifestata una netta divergenza tra le economie dell’Asia del Pacifico, da un lato, e quelle occidentali di Stati Uniti e Europa, dall’altro. I paesi asiatici com’è noto sono stati i primi ad essere colpiti dal coronavirus, ma sono stati anche i primi a contenere la pandemia e imboccare la ripresa. La Cina come apri fila vede un 2% di crescita quest’anno, con una previsione ancor più positiva per il prossimo anno. Molti dei motivi di queste disparità di performance sono stati ricondotte a differenze nel sistema di valori, istituzioni politiche e culture esistenti tra Oriente e Occidente. Tutto vero, ma altrettanto importante è stato il diverso approccio nella lotta contro il corona virus adottato dai paesi asiatici, sintetizzabile in: una pronta risposta sanitaria; in efficaci metodi di tracciamento e isolamento basati su tecnologie digitali avanzate; e in riaperture accompagnate da politiche post-lockdown appropriate. Si spiegano così i risultati migliori, sul piano sanitario e economico, ottenuti da questi paesi. Ne dovremmo trarre una lezione, molto di più di quanto abbiamo fatto finora.

Tanto più che la pandemia e le politiche per contrastarla condizioneranno anche nel prossimo futuro l’andamento delle maggiori economie e le possibilità di rilancio dei vari paesi. A questo riguardo è anche vero che un mero ritorno a ciò che eravamo nell’era pre-Covid non è certamente ipotizzabile. Anche perché l’economia globale dell’ultimo decennio aveva finito per generare grandi diseguaglianze e profonde distorsioni, a partire dall’ambiente. Anche prima della crisi si era cominciato a discutere come correggere queste tendenze e aspetti negativi.

Al riguardo, la fase di rilancio economico e uscita dalla crisi pandemica potrebbe essere vista anche come un’opportunità per favorire alcune trasformazioni dell’economia globale. Si tratterebbe di trarre dalla drammatica crisi in corso alcune fondamentali lezioni: i costi economici oltre che sociali delle disuguaglianze; il ruolo strategico dello Stato e del settore pubblico; la funzione fondamentale di beni pubblici quali l’educazione, l’assistenza sanitaria, la salvaguardia dell’ambiente; la necessità di azioni collettive. L’uscita dalla crisi potrebbe offrire l’occasione per nuove risposte a queste domande. Preso atto che da questa crisi emergerà non vi è dubbio una forte e crescente domanda d’intervento dello Stato. Anche se le direzioni potranno essere assai diverse da paese a paese.

In tema di ‘governance internazionale’ il vero nodo da sciogliere è come rendere un adeguato livello di interdipendenza, in grado di produrre una serie di indiscutibili benefici, in qualche modo compatibile e complementare alla sovranità e sicurezza di un paese, e quindi alla sfera d’intervento nazionale. L’importante è saper dimostrare ai cittadini di un paese in concreto i vantaggi dell’apertura e della cooperazione internazionale. Guadagnare il loro consenso rappresenterà un tassello fondamentale per delle rinnovate politiche multilaterali. I nazionalismi e basta non rappresentano certo una soluzione.

4. Se il rapporto Stati Uniti – Cina è stato caratterizzato dall’integrazione di beni, capitale, tecnologia e persone, in ragione della guerra commerciale secondo alcuni analisti saremmo innanzi ad una possibile biforcazione. La necessità di allineare gli interessi economici a quelli di sicurezza potrebbe comportare, infatti, l’interruzione delle catene globali del valore e la rilocalizzazione della produzione delle imprese strategiche fuori dal territorio del competitor e dei relativi alleati, rivoluzionando in conseguenza il commercio internazionale. È uno scenario auspicabile? Laddove il decoupling divenisse realtà a quali rischi andrebbe incontro l’Italia e quali vantaggi potrebbe trarre invece? La crisi da coronavirus quali effetti sta producendo sulla connettività globale?

Unitamente alla crisi dell’ordine multilaterale, altrettanto prevedibile sarà la fine di quella impetuosa fase della globalizzazione che era stata definita una sorta di ‘età dell’oro’. Dopo aver raggiunto in circa due decenni il suo picco massimo in occasione della Grande crisi del 2008-2009, la globalizzazione era entrata da qualche anno in una fase di relativo arretramento. L’Economist ha parlato di una nuova fase di ‘Slowbalization’. Anche perché i benefici dell’apertura commerciale e finanziaria erano stati pesantemente rimessi in discussione un po’ ovunque nell’area avanzata, dietro la spinta di un diffuso malcontento di larghi strati della popolazione, inclusi vasti segmenti del ceto medio. Di qui anche il successo delle forze sovraniste e populiste negli Stati Uniti e in Europa.

Ma l’alternativa oggi non è tra globalizzazione e deglobalizzazione, come spesso si legge ma quale nuova configurazione assumerà l’economia mondiale nei prossimi anni. La scena politica globale come detto continuerebbe a essere dominata dall’aspro confronto tra Stati Uniti e Cina, incentrato sempre più sulla sfida tecnologica, col tentativo americano di affermare comunque anche sotto la Presidenza Biden una sorta di ‘decoupling’ a livello mondiale. In questo scenario post pandemico uno dei pilastri della globalizzazione in essere ovvero le catene globali del valore (CGV) non scompariranno certo, ma subiranno delle riconfigurazioni, più o meno estese. Vi sarà un ritorno verso le aree e paesi di origine, all’insegna di maggiori diversificazioni, dettate dalla necessità di ogni maggiore paese di ridurre condizioni di forte dipendenza da paesi terzi, in particolare dalla Cina.

Un processo costoso e che richiederà tempo. Soprattutto sarà sempre esposto al rischio di spingersi troppo in là, fino a adottare strategie marcatamente protezioniste in nome della sicurezza nazionale, così da introdurre nuove e sempre più articolate restrizioni agli scambi e all’accesso ai mercati. In un tale contesto potrebbero diffondersi misure che cerchino di scaricare i costi dell’aggiustamento all’esterno, sugli altri paesi (beggar-thy-neighbouring), con conseguente ristagno dell’attività economica, ridimensionamento del grado di apertura e del commercio globale, marginalizzazioni degli ambiti di cooperazione internazionale. Ne deriverebbero costi pesanti e diffusi, soprattutto per i paesi più deboli. Anche il rilancio di un sentiero di crescita stabile dell’economia mondiale sarebbe molto più difficile.

Una frammentazione internazionale che colpirebbe anche l’Italia e gli altri paesi europei. Il commercio internazionale dal secondo dopoguerra in poi è stata uno strumento fondamentale per sostenere la crescita e aumentare il reddito pro capite dei maggiori paesi europei. L’Italia ne ha grandemente beneficiato. In Europa siamo il secondo Paese esportatore di manufatti con un surplus di bilancia commerciale molto elevato. La nostra crescita e occupazione dipendono in modo fondamentale dalle esportazioni. Per non parlare delle attività economiche legate agli investimenti internazionali che l’Italia effettua verso e riceve dal resto del mondo.

Ma quanto detto sopra non è il solo scenario ipotizzabile. L’internazionalismo pragmatico di Biden e una più autonoma strategia dell’Europa possono favorire una nuova configurazione dell’economia mondiale e il mantenimento di mercati aperti oltre che un nuovo multilateralismo. L’Italia ha dunque interesse a spingere verso nuove politiche americane e europee. Naturalmente l’influenza che in materia può esercitare il nostro paese preso singolarmente è davvero limitata. In un’area così importante come quella degli scambi e investimenti internazionali è del tutto illusorio per l’Italia pensare – come oggi fanno alcuni – di agire da sola, sventolando la bandiera del sovranismo. Basti ricordare che la quota sul PIL mondiale di Stati Uniti, Cina e Europa supera ognuna il 16%, mentre quella dell’Italia non arriva al 2%. In un mondo di grandi poli come l’attuale il singolo paese, muovendosi da solo, rischia di finire stritolato. Per l’Italia e gli altri paesi membri, l’Unione europea è l’unica dimensione che è in grado di assicurare una vera ed efficace difesa e capacità d’intervento a livello globale. E il nostro interesse è che le scelte della politica economica europea si dirigano nelle direzioni prima delineate. Non è affatto scontato dal momento che le divisioni e conflitti all’interno della Ue sono tutt’altro che superati.

Paolo Guerrieri è docente alla Paris School of International Affairs, Sciences-Po (Parigi) e alla Business School dell’Università di San Diego, California. Senatore della Repubblica nella XVII legislatura, membro della Commissione Bilancio e della Commissione delle Politiche europee dal 2013 al 2018. Editor della Rivista ‘Journal of European Economic History’, Presidente dell’Advisory Board della Rivista ‘Economia Italiana’. E’ stato consulente presso numerose istituzioni e organizzazioni internazionali, tra cui la Banca Mondiale, la Commissione Europea, l’OCSE, la CEPAL. Già professore ordinario di economia alla Sapienza Università di Roma, Visiting Professor all’Università di California, Berkeley, ULB (Belgio), USD of San Diego, California, Complutense (Madrid, Spagna), ESADE Business School (Barcellona, Spagna). Autore di numerosi articoli e libri su temi dell’economia e della politica economica internazionale, l’ultimo dei quali – di cui è coautore Pier Carlo Padoan – è: L’economia europea tra crisi e declino, Il Mulino.