1. Il tema della collocazione internazionale dell’Italia, ad elezioni celebrate, resta uno dei nodi politici per la compagine vincitrice. A dispetto, cioè, degli impegni programmatici della coalizione di centro-destra, con cui era stato messo nero su bianco l’ancoraggio atlantista ed europeista dell’alleanza, continuano a nutrirsi riserve sulla condotta dell’Italia innanzi alla guerra in Ucraina. Vuoi per i passi in avanti compiuti in occasione della pandemia, vuoi per il disciplinamento imposto dalla guerra, l’Unione europea in quanto tale non sembra più essere un obiettivo polemico di Fratelli d’Italia e Lega. Come verranno declinati e coniugati atlantismo ed europeismo dal centro-destra? Ove queste “dimensioni” entrino in conflitto quale prevarrebbe? Come vede l’Italia l’amministrazione Biden?
Faccio molta fatica a immaginare un’esplicita contestazione della linea atlantista. Questo per diverse ragioni. Innanzitutto, essa è oggi meno controversa ed è sostenuta da un ventaglio di forze ampio e trasversale dentro quella che dovrebbe essere la prossima maggioranza di governo. In secondo luogo, a conflitto ucraino in corso, non vi sono davvero margini di manovra, come in una certa misura hanno scoperto attori più pesanti dell’Italia come Francia e Germania. Infine, perché l’atlantismo rimane – ovvero è tornato a essere – il fronte primario di legittimazione politica esterna per chi ambisce a governare in Italia, come peraltro abbiamo visto bene anche nella campagna elettorale ultima e nella retorica adottata da Giorgia Meloni. Aggiungo, che da parte statunitense l’atlantismo viene sempre più declinato in chiave anti-cinese, come evidenziato anche nell’ultimo concetto strategico della NATO, e anche su questo mi pare vi possa essere una sorta di convergenza naturale tra Washington e Roma, l’amministrazione Biden e il prossimo governo Meloni. Diverso mi sembra essere il caso dell’Europa. Perché se è vero che la UE ha recuperato credibilità e legittimità grazie dalla gestione della pandemia e del post-pandemia, è altresì vero che più radicate e diffuse in pezzi della Destra italiana sono posizioni euroscettiche o anti-UE. Alcune delle politiche pubbliche proposte nei programmi elettorali, a partire dalla gestione dell’immigrazione, potrebbero riattivare delle tensioni tra Italia e UE come quelle che vedemmo nel I governo Conte. Infine, è assai probabile che un prossimo governo di centro-destra promuova politiche su temi non strettamente di competenza europea – penso ad esempio sull’aborto o sull’istruzione – che però potrebbero generare censure di altri attori europei e tensioni politiche conseguenti.
2. Ad una Russia che sembra dividere il centro-destra corrisponde una Cina che lo unisce, nella ferma critica. Nei giorni dell’ennesima recrudescenza della crisi dello stretto di Taiwan, l’estate scorsa, scalpore aveva destato la scelta di Meloni di incontrare il rappresentante dell’ufficio di Taipei in Italia, Andrea Sing-Ying Lee. Un gesto dall’alto valore simbolico, cui è poi seguita nell’ultima giornata di campagna elettorale l’intervista da Meloni rilasciata all’agenzia di stampa di Taiwan CNA. “Con un governo di centrodestra, è certo che Taiwan sarà una preoccupazione imprescindibile per l’Italia”, ha dichiarato la leader di Fratelli d’Italia. Ritiene plausibili iniziative diplomatiche italiane, come quelle intraprese ad esempio dalla Lituania, che modifichino di fatto la One China policy? Quali fattori contribuiscono alla definizione della politica italiana verso la Cina?
Come spesso capita, in un paese che è media-potenza e ha un’influenza e un’autonomia relative sulla scena internazionale, la dimensione simbolica dell’azione politica prevale su quella pratica. Dichiarazioni pro-Taiwan come quelle della Meloni si possono concretare in poco e nulla, che rispetto a quella issue è una partita a tre – Cina/Usa/Taiwan – quella che davvero conta. È immaginabile, però, una convergenza tra Italia e Stati Uniti rispetto alla volontà di questi ultimi di promuovere una politica di contenimento ben più aggressivo della Cina. Washington chiede ai loro alleati europei di dare un contributo più significativo rispetto a questo, attraverso un controllo più severo degli investimenti diretti cinesi e, soprattutto, contribuendo allo sforzo di disaccoppiare l’economia globale dalla Cina. In concreto, ciò dovrebbe comportare una modifica delle catene globali di produzione e distribuzione, con una graduale riduzione della presenza cinese (soprattutto nelle tappe iniziali e intermedie) e del potere di condizionalità che tale presenza continua a offrire a Pechino. Agli europei, come ad altri partner (ad esempio nell’Asia-Pacifico o nelle Americhe), gli Usa offrono sia la continuazione della loro protezione militare sia la volontà di promuovere forme ancor più intense d’integrazione regionale. Si punta insomma a una de-globalizzazione e a un contestuale approfondimento delle interdipendenze regionali. La grande questione è se gli alleati europei – e, ancora una volta, la Germania su tutti – siano disponibili a seguirli (dentro il governo tedesco i verdi sembrano avere pienamente abbracciato questa linea neo-atlantista, ma vi sono ovvie resistenze visto quanto è cresciuta nell’ultimo decennio l’interdipendenza economica sino-tedesca). Come su altri dossier degli ultimi anni, è possibile che Washington chieda un aiuto all’Italia in tal senso.
3. La segreteria di Friedrich Merz ha impresso una profonda revisione alla politica internazionale dell’Unione Cristiano-Democratica di Germania. Complice la guerra in Ucraina ma non soltanto, i sedici anni di ostpolitik merkeliana sono stati relegati nel passato remoto della storia tedesca ed europea. A questa giravolta della CDU, culminata nell’ipotesi – poi sfumata – di un “Patto contro la Cina” tra il senatore statunitense Graham e lo stesso Merz, fa da contraltare l’estrema cautela che traspare, tra gli altri, nelle parole di Herbert Diess, fino allo scorso luglio amministratore delegato di Volkswagen, che ha messo in guardia il governo Scholz dal perseguire una politica di confronto con la Cina, alla luce delle “implicazioni economiche” di tali iniziative. Secondo Diess, infatti, in Germania “è sottovalutata quanto fortemente la nostra prosperità è cofinanziata dalla Cina”. La tensione che oppone ragioni politiche e ragioni di business sembra riflettersi anche nell’indirizzo di fondo sulla Cina da parte dell’Unione Europea: in un contesto di recessione economica quanto ancora potrà perpetuarsi questa contraddizione? In quale direzione penderà il pallino politico di Bruxelles alla fine?
Credo che questa sia davvero la questione nodale oggi. Gli Usa vogliono ri-cementare un atlantismo federato dalla leadership statunitense, giustificato in termini securitari dalla guerra in Ucraina e funzionale alla volontà di contenere l’influenza della Cina. Influenza, questa, che si esplicita principalmente per canali economici. Per farlo ha ovviamente bisogno della Germania. Dove vi sono i cleavage indicati nella domanda. E dove tra le forze di governo politiche (dentro lo stesso governo) vi sono linee diverse, con fratture che attraversano gli stessi partiti (soprattutto la SPD), il tema della democrazia e dei diritti umani branditi da Verdi sempre più atlantisti e una CDU che sembra voler abbandonare il realismo pragmatico, e talora cinico, degli anni della Merkel. Tutto ciò ci mostra ancora una volta quanto intrecciate possano essere la politica interna e quella estera, come l’una condizioni mutualmente l’altra. La recessione alle porte aggiungerà tensioni a tensioni, ma temo che la Germania – e di riflesso l’Europa – si troveranno a dover scegliere o quanto meno ad accogliere, magari in forma parziale e con molta gradualità, le pressioni statunitensi affinché riducano la loro interdipendenza commerciale e finanziaria con la Cina.
4. Il 16 ottobre prenderà il via il XX congresso del Partito Comunista Cinese. Anche quello cinese, come ancora prima quello sovietico e italiano, si preannuncia un XX congresso di svolta: verrà, infatti, meno la regola, introdotta da Deng Xiaoping, che voleva il Presidente della Repubblica in carica due mandati soltanto. Pochi giorni dopo, l’8 novembre, si terranno negli Stati Uniti le elezioni di mid-term, in occasione delle quali verrà eletta l’intera Camera dei rappresentanti e un terzo del Senato. Quale impatto possono avere questi due grandi appuntamenti sulla guerra in Ucraina e, a cascata, sull’Europa? Una netta affermazione dei repubblicani – oggi più incerta di quanto non fosse prima dell’estate, come lei stesso ha notato – può determinare un allentamento della presa Usa sugli alleati europei in Ucraina, schiudendo dei margini di manovra autonomi per Macron e Scholz? In vista delle presidenziali 2024, la politica estera può rappresentare per i repubblicani il terreno in cui provare a minare la presidenza Biden?
Non credo che le elezioni di mid-term, qualsiasi sia il loro esito, possano andare a incidere sulla politica estera statunitense e le sue direttrici di fondo. Vi è per il momento un ampio consenso bipartisan sulla linea adottata rispetto all’Ucraina ovvero in merito alla necessità di promuovere un più robusto contenimento della Cina. La campagna dei repubblicani fa leva su altro – e cavalca la persistente polarizzazione – per mettere sulla difensiva i democratici: criminalità urbana in crescita da tre anni; immigrazione e questione sicurezza al confine meridionale; impopolarità di Biden, percepito (in parte a ragione) come leader fragile, anziano e non pienamente in controllo; inflazione e impatto sul potere d’acquisto. Diverso è se guardiamo oltre il 2022 e ci proiettiamo alle Presidenziali del 2024. Dove un eventuale ritorno (e vittoria) di Trump potrebbe avere un impatto anche sulla politica estera (anche se il suo precedente mandato ha mostrato uno scarto macroscopico tra retorica e azione, anche in virtù di un Senato che lo ha di molto limitato, ad esempio rispetto a un possibile reset delle relazioni con la Russia). Non sono uno studioso di Cina e non mi avventuro quindi in previsioni su cosa possa davvero implicare questo prolungamento della leadership di Xi; noto solo che la storia della repubblica popolare cinese è segnata da una dialettica intensa, e talvolta violenta, tra diverse fazioni e gruppi di potere del Partito Comunista. Un aspetto che non è venuto meno neanche con Xi, a dispetto degli sforzi di centralizzazione e disciplina. E qualcosa quindi a cui si dovrà prestare grande attenzione per comprendere gli sviluppi futuri.
Mario Del Pero è Professore Ordinario di Storia Internazionale e Storia degli Stati Uniti all’Institut d’études politiques – SciencesPo di Parigi, dove dirige il programma dottorale in storia e insegna corsi di storia globale e storia della politica estera statunitense.