Elezioni presidenziali, Semestre europeo, Trattato del Quirinale: la Francia secondo il Professor Brizzi

1. Con la designazione della candidata dei Républicains, Valérie Pécresse, sembra essersi composto il parterre degli sfidanti per la corsa all’Eliseo del prossimo aprile. Secondo un sondaggio di Ipsos-Sopra Steria, realizzato per il quotidiano «Le Monde», l’uscente Emmanuel Macron godrebbe del 24% dei consensi, seguito dal terzetto di destra rappresentato da Pécresse appunto (17%), dalla leader del Rassemblement National Marine Le Pen e dal conservatore Eric Zemmour, entrambi al 14,5%. Indietro, all’8,5%, il candidato di Europa Ecologia-I Verdi, Yannick Jadot, e il leader di La France Insoumise, Jean-Luc Mélenchon.

È stato da più parti notato che la discesa in campo dell’outsider Zemmour, nel frammentare ulteriormente l’offerta elettorale di destra, potrebbe in ultima istanza contribuire alla rielezione di Macron. Cionondimeno sembra chiaro che l’agenda tematica della campagna elettorale rischi di essere egemonizzata dalle destre. È così? L’eventuale approdo al ballottaggio di Pécresse potrebbe porre in discussione l’affermazione di Macron? In che misura la pandemia può modificare le tendenze elettorali?

A due mesi dal primo turno delle elezioni presidenziali del 2022 lo scenario appare ancora incerto. Innanzitutto, la lista dei candidati che si presenteranno al voto non è ancora definita: non solo il presidente uscente – come da tradizione della V Repubblica – non ha ancora ufficializzato la propria candidatura (probabilmente lo farà tra fine febbraio e inizio marzo) ma pochi tra gli aspiranti candidati hanno già ottenuto le 500 firme di sostenitori istituzionali necessarie per formalizzare la candidatura.

I sondaggi indicano peraltro una situazione in continua evoluzione. In vista del primo turno il capo dello Stato uscente appare il grande favorito. Alla metà di febbraio Macron è accreditato dai principali istituti di un esito molto vicino a quello che aveva conseguito nel 2017 (24%), con due elettori su tre che lo hanno votato cinque anni fa che manifestano l’intenzione di riconfermargli la fiducia. La seconda posizione è contesa da tre rivali, che appaiono molto vicini (tra il 14% e il 15%) nella corsa verso il ballottaggio: i due rappresentanti dell’estrema destra, Marine Le Pen ed Éric Zemmour, e la candidata della destra repubblicana, Valérie Pécresse. Da escludere, se non ci saranno alleanze o desistenze, la presenza di un candidato di sinistra al secondo turno: al momento nessuno supera il 10%.

Macron appare in vantaggio anche in vista del secondo turno. Secondo i sondaggi sarebbe riconfermato sia in caso di ballottaggio contro Le Pen – per quanto con uno scarto molto più contenuto (56% vs 44%) rispetto a cinque anni fa (nel 2017 era stato 66% vs 34%), che contro Zemmour (63% a 37%). Risultato favorevole, benché più conteso, anche contro Pécresse (54% vs 46%), che tuttavia nelle ultime settimane sembra avere perso lo slancio seguito alla vittoria delle primarie di dicembre e l’effetto di novità dettato dall’essere la prima donna a rappresentare la destra gollista alle presidenziali (mentre Macron si presenta per la seconda volta e Marine Le Pen per la terza). Per sperare di arrivare al ballottaggio e giocare le proprie carte Pécresse deve necessariamente ridare slancio alla propria campagna (è l’obiettivo del grande meeting organizzato allo Zénith di Parigi, domenica 13 febbraio) e confidare in un buon risultato di Zemmour, capace di erodere voti decisivi a Le Pen.

I pronostici favorevoli a Macron non devono tuttavia trarre in inganno. Innanzitutto, la storia elettorale, ricca di sorprese, impennate improvvise e cadute fragorose, ci induce a mantenere cautela (si pensi al crollo inatteso di Fillon, 5 anni fa, considerato il grande favorito della competizione). In secondo luogo, mai come oggi l’estrema destra francese appare forte e combattiva. Con circa il 30% delle intenzioni di voto al primo turno questa famiglia politica supera il risultato – già molto elevato – di cinque anni fa quando Marine Le Pen, all’epoca unica candidata dell’estrema destra, al primo turno conquistò il 21,3%. Non a caso Macron – in attesa di ufficializzare la propria candidatura – è molto attivo e tenta contemporaneamente di occupare lo spazio mediale e di dettare l’agenda politica. Emblematici, a tale riguardo sia il protagonismo acquisito sulla questione russo-ucraina, con l’incontro iper-mediatizzato con Putin a Mosca a inizio febbraio, sia le dichiarazioni estremamente dure rilasciate contro i no vax. Una strategia che si propone di spostare il dibattito elettorale da temi cari alla destra come immigrazione e sicurezza verso tematiche come i rapporti con la Russia di Putin e il «pass vaccinale», che dividono e imbarazzano la destra francese.

Definire l’agenda politica significa anche evitare che il confronto si basi sul bilancio della propria presidenza, che raramente è un buon viatico per la rielezione. Per comprendere la delicatezza di questa operazione basterà ricordare come da quando è stata introdotta l’elezione diretta del capo dello Stato (1962), il presidente uscente è stato riconfermato solo due volte (Mitterrand nel 1988 e Chirac nel 1995), ma in entrambi i casi al termine di una coabitazione con un primo ministro di colore politico opposto. In assenza di coabitazione, invece, non si è mai verificata una rielezione (con le sconfitte di Giscard nel 1981, di Sarkozy nel 2012 e la mancata ricandidatura di Hollande nel 2017). Oltre ai propri rivali Macron, per riconfermarsi all’Eliseo, deve insomma sconfiggere anche una delle leggi non scritte della V Repubblica, che non ha mai consentito la rielezione di un capo dello Stato che non abbia vissuto una fase di coabitazione.

2. Il 26 novembre scorso, a Roma, Mario Draghi ed Emmanuel Macron hanno siglato il Trattato del Quirinale. In seno all’Unione europea sembra dunque accentuarsi quella tendenza alla bilateralizzazione dei rapporti, da più parti denunciata già in occasione del Trattato di Aquisgrana del 2019 tra Francia e Germania. Se resta da vedersi se tale fenomeno sia indice di un’ulteriore disgregazione del tessuto comunitario, sembra fuor di dubbio il tentativo francese, a seguito di Brexit e del tramonto di Merkel, di aumentare la capacità di influenza in Europa. Col tempo l’intesa, ammonisce – tra gli altri – Roberto Sommella, potrebbe trasformarsi in un Trattato dell’Eliseo, subordinato per di più a quello franco-tedesco. Tale preoccupazione origina dalle profonde asimmetrie che caratterizzano la relazione franco-italiana. In virtù del rilievo delle imprese statali francesi e della più generale capacità di indirizzo del pubblico sull’economia, dopo la crisi del 2008 la Francia avrebbe adottato una vera e propria strategia offensiva verso l’Italia, grazie alla quale sono state compiute numerose acquisizioni e operazioni in diversi settori industriali: moda, agroalimentare, finanza, assicurativo, automotive, bancario. Si è parlato allora di «campagna italiana» proprio perché ad avere la peggio in termini di direzione dei predetti processi è nella stragrande maggioranza dei casi proprio l’Italia. Come si può affrontare il problema di reciprocità? La competizione nel Mediterraneo, come testimonia da ultimo il ragguardevole danno procurato all’Italia con l’improvvida iniziativa bellica in Libia, come può coniugarsi coi propositi richiamati nel Trattato di sviluppare una maggiore integrazione in materia di esteri, difesa e spazio? In questo quadro l’Italia corre il rischio di costituire il prolungamento della politica di potenza francese?

Il trattato del Quirinale, firmato dal presidente francese Macron e dal presidente del Consiglio italiano Draghi ha visto la luce dopo una lunga e complessa gestazione (avviata sin dal 2017) ed è stato oggetto di letture divergenti. C’è chi ne vede un rafforzamento dell’Europa e chi teme che la formalizzazione di questi rapporti bilaterali riduca l’Ue a puro modello intergovernativo. Alcuni analisti sottolineano la ritrovata «entente cordiale» tra Parigi e Roma mentre altri mettono in guardia da un patto diseguale, con la Francia in posizione di forza.

Come ogni trattato internazionale va anzitutto contestualizzato, prima di valutarne le possibili prospettive. E lo scenario in cui si colloca è quello di un’UE in grande difficoltà di fronte alle sfide cui è confrontata, dalla pandemia al riscaldamento globale, dal post-Brexit alle rinnovate tensioni geopolitiche internazionali. Un momento estremamente delicato che conosce una fase di ulteriore incertezza per via dell’uscita di scena di Angela Merkel dopo 16 anni di cancellierato e di indiscusso protagonismo europeo (iniziato già all’indomani della sua entrata in carica, nell’autunno 2005, quando risolse con determinazione lo stallo sul budget Ue 2007-2013).

Per quanto sia prematura ogni valutazione di un trattato fresco di firma è possibile affermare che esso pone fine – almeno temporaneamente – a una lunga stagione di tensioni tra i due paesi. Negli ultimi decenni le relazioni franco-italiane sono state caratterizzate da frequenti momenti di attrito: si pensi in ambito economico ai frequenti stop imposti da Parigi alle operazioni di aziende italiane in terra francese (quella di Enel su Suez nel 2006 o, in tempi più recenti, di Fincantieri su Stx), in campo internazionale al conflitto in Libia e, sul terreno europeo, ai difficili rapporti tra Sarkozy e Berlusconi, resi evidenti dai sorrisi d’intesa tra il capo dello Stato francese e Angela Merkel nell’ottobre 2011.

Mai però le relazioni tra Roma e Parigi si erano mantenute tese per un periodo lungo come il biennio 2017-1019. Nei mesi successivi all’arrivo all’Eliseo di Macron si è assistito a un irrigidimento sui tre fronti più delicati delle relazioni franco-italiane degli ultimi anni: l’economia (con la sconfessione degli accordi sottoscritti da Fincantieri pochi mesi prima per l’acquisizione dei cantieri navali di Saint Nazaire in Bretagna), la crisi migratoria (con il rifiuto francese di aprire i propri porti nonostante le richieste del ministro degli Interni italiano, Marco Minniti) e la Libia, con l’organizzazione di un vertice a La Celle-Saint-Cloud che in Italia è stato interpretato come il tentativo francese di imporre il proprio ruolo e gli interessi di Total a danno del gruppo italiano Eni. L’arrivo del governo giallo-verde in Italia ha ulteriormente aumentato le tensioni, culminate con l’incontro in Francia tra l’allora vice-premier Luigi Di Maio e i rappresentanti dell’ala dura del movimento dei gilet gialli nel febbraio 2019 e la conseguente decisione di Parigi di richiamare il proprio ambasciatore a Roma, Christian Masset.

In due anni la diplomazia non è solo riuscita a far tornare il sereno nei rapporti tra Parigi e Roma ma ha portato a compimento l’architettura di un Trattato che prevede molteplici livelli di collaborazione e compensazione, incluse partecipazioni incrociate nei rispettivi Consigli dei ministri, che renderanno meno probabile il riproporsi di stagioni di tensione tra i due versanti delle Alpi.

Per l’Italia il Trattato non significa la possibilità di sedersi al tavolo del motore franco-tedesco dell’Unione, ma assume il significato di un recupero di credibilità dopo una lunga latitanza europea e le frizioni con Parigi. Per la Francia esso interrompe una fase di appannamento europeo e la rafforza indirettamente all’interno dell’asse franco-tedesco, di cui da almeno vent’anni è il partner debole e meno convinto (come segnalò la bocciatura referendaria da parte francese del Trattato costituzionale europeo, il 29 maggio 2005).

La principale incognita che aleggia sul Trattato sono le imminenti scadenze elettorali. L’esito delle presidenziali francesi e quello delle politiche italiane del prossimo anno potrebbe, infatti, consolidare o, al contrario, destabilizzare profondamente lo spirito del Trattato e il suo funzionamento. In attesa di conoscere il verdetto delle urne Roma e Parigi si apprestano, in un clima di ritrovata armonia, ad affrontare fianco a fianco il difficile negoziato sulla revisione delle regole del Patto di stabilità. Non è certo un caso che il quotidiano economico tedesco «Handelsblatt» abbia criticato il Trattato del Quirinale e polemizzato contro il tandem «Dracron», parlando di «unione del debito italo-francese».

3. «Dobbiamo passare da un’Europa di cooperazione all’interno delle nostre frontiere a un’Europa potenza nel mondo, sovrana, libera nelle sue scelte e padrona del suo destino»: con queste parole il 9 dicembre scorso il presidente Macron ha presentato il programma del semestre europeo francese. Il tenore del discorso è lo stesso della campagna che lo aveva portato all’Eliseo nel 2017 e delle note interviste rilasciate a «The Economist» nel novembre 2019 e a «Le Grand Continent», esattamente un anno dopo. La declinazione del concetto di «sovranità europea» e la sua compatibilità con l’atlantismo purtuttavia continuano a rappresentare il convitato di pietra del confronto tra le cancellerie europee. La rifondazione di Schengen e la costruzione di un nuovo modello europeo di crescita, priorità attorno cui ruoterà il semestre francese, appaiono così dei propositi fin troppo ambiziosi in ragione, anche, della sovrapposizione elettorale. Quali risultati potranno realisticamente conseguirsi in questo semestre? L’iniziativa franco-italiana per modificare le regole fiscali europee, popolarizzata dai presidenti Macron e Draghi con un articolo pubblicato sul «Financial Times», sulla scorta di un paper co-firmato da Francesco Giavazzi e Charles-Henri Weymuller, segna un punto di svolta per l’Europa?

Per la tredicesima volta dal 1958 la Francia guida la presidenza semestrale dell’Unione europea (l’ultima volta era stata nel 2008). Al di là delle affermazioni altisonanti del capo dello Stato francese Macron, che ha inaugurato il semestre affermando che «il 2022 deve essere l’anno della svolta europea», il contesto appare estremamente delicato. L’Unione europea si trova infatti confrontata a una serie di sfide particolarmente minacciose: dai venti di guerra che spirano lungo il confine tra Russia e Ucraina alla crisi sanitaria, che complica l’orizzonte economico comunitario.

Parigi ha fissato tre cantieri prioritari della presidenza: la revisione del patto di stabilità, la riforma dello spazio Schengen e l’adozione di un «patto migratorio» europeo.

Relativamente al primo tema difficilmente si arriverà nei prossimi mesi ad un aggiornamento significativo delle regole fiscali comunitarie. Sin dalla prima riunione dell’Eurogruppo del 2022 si è assistito infatti al riproporsi del braccio di ferro tra «falchi» dell’austerity e «colombe» mediterranee, con la presa di posizione del nuovo ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner, al suo primo vertice a Bruxelles, in favore di un ritorno a regole di bilancio più severe quando la crisi sarà superata.

Gli altri due temi promossi dalla presidenza francese sono strettamente legati e si riallacciano alla presentazione da parte della Commissione europea, nel settembre 2020, del nuovo Patto globale su asilo e migrazione, volto a superare il regolamento di Dublino. L’accordo, che prevede un rafforzamento delle frontiere esterne, intese con i paesi di partenza e meccanismi obbligatori di solidarietà, è tuttavia rimasto sino a oggi lettera morta. Anche l’intenzione della Commissione, sostenuta da Parigi, di obbligare i paesi recalcitranti – a partire dal gruppo di Visegrad – a sostenere finanziariamente i partner che si sobbarcano i costi dell’accoglienza, non ha avuto eco in Europa centro-orientale dove al contrario negli ultimi anni sono sorti muri e fili spinati con l’obiettivo di frenare i migranti. La medesima paralisi europea si registra in relazione alla riforma di Schengen: formalmente si ribadisce il principio della libera circolazione ma nei fatti essa non è più un principio intangibile, sempre più limitato da esigenze di sicurezza. Negli ultimi anni la crisi migratoria, l’ondata di attacchi terroristici e, da ultimo, la pandemia hanno spinto diversi paesi membri dello spazio Schengen a reintrodurre – raramente attraverso la concertazione – procedure di controllo alle frontiere, erodendo di fatto uno dei pilastri fondanti dell’Unione.

Difficilmente anche su questo terreno si riusciranno a registrare passi avanti significativi nei prossimi mesi quando Macron sarà impegnato nella campagna presidenziale e difficilmente vorrà prestare il fianco ai propri rivali – Le Pen e Zemmour in primo luogo – portando il dibattito su temi sensibili come immigrazione e la sicurezza.

Riccardo Brizzi.Docente di storia contemporanea e storia della comunicazione politica presso l’Università di Bologna, insegna Storia dell’opinione pubblica e del giornalismo presso il Master in giornalismo dell’Università di Bologna ed è Visiting professor presso Sciences Po Lyon. I suoi interessi di ricerca si sono concentrati prevalentemente sulla storia politica europea, con particolare attenzione al contesto francese. Tra le sue pubblicazioni: – Charles de Gaulle, Bologna, Il Mulino, 2008 (con M. Marchi) – L’uomo dello schermo. De Gaulle e i media, Bologna, Il Mulino, 2010. – Il governo Mendès France, Bologna, Clueb, 2010. – Storia politica della Francia repubblicana, 1870-2011, Firenze, Le Monnier, 2011 (con M. Marchi) – La Francia di Hollande, Bologna, Il Mulino, 2013 (con Gabriel Goodliffe) – Osservata speciale. La neutralità italiana nella Prima guerra mondiale e l’opinione pubblica internazionale (1914-15), Firenze, Le Monnier, 2015.