Il conflitto afghano si sposta a K Street

È di qualche giorno fa la notizia che uno dei leader della resistenza anti talebana Ahmad Massoud, (figlio del leggendario leone del Panjshir, leader della resistenza contro l’invasione sovietica e fiero oppositore dei Talebani e per questo ucciso nel 2001 alla vigilia dell’attacco alle Torri Gemelle) ha firmato un contratto di consulenza «pro bono» con un lobbista, Robert Stryck, a capo di una società di Washington molto aggressiva e chiacchierata dal momento che in passato ha accettato di rappresentare alcuni interessi che altre agenzie avevano rifiutato. Il mandato che ha ricevuto da Ali Nazary, rappresentante di Massoud negli Stati Uniti, si declina su più fronti. Quello strettamente contingente ed operativo: ottenere aiuti logistici e militari per continuare la battaglia sul campo. Ad oggi le forze infatti sono impari e parte del territorio del Panjshir, dove Massoud ha storicamente la propria roccaforte, è ormai in mano talebana.

La resistenza è impensabile senza un aiuto esterno soprattutto da quando i nuovi vincitori sono entrati in possesso dell’arsenale made in Usa del defunto esercito afghano.

Dal punto di vista politico l’obiettivo di Massoud è di essere accreditato dal governo Usa come l’unico interlocutore della resistenza, di impedire qualsiasi riconoscimento internazionale al nuovo governo e riuscire ad imporre un sistema di sanzioni che renda vano qualsiasi tentativo di Kabul di entrare in possesso dei fondi depositati all’estero.

Dall’altro canto sembrerebbe che anche i Talebani si stiano muovendo per promuovere i propri interessi. Politico ha infatti raccolto alcuni rumors secondo i quali almeno tre agenzie di lobbying sono state contattate da loro esponenti per sondarne la disponibilità. Ottenendo, pare, sdegnati rifiuti. Ma non è detto che si fermino.

Quanto sta accadendo si inserisce nel complesso puzzle della ridefinizione della presenza a Washington dei gruppi d’interessi dell’area medio orientale da quando è in carica il nuovo presidente Joe Biden. Una tradizione ormai consolidata: ogni volta che c’è un cambio di amministrazione tutti i gruppi d’interesse (nazionali e stranieri) cercano di aumentare la propria attività d’influenza ristrutturando la squadra che li rappresenta. Tra questi spicca il governo dell’Arabia Saudita che utilizza 23 società di consulenza nel settore del lobbying e delle relazioni pubbliche. Un budget dichiarato (nel 2020) di 31 milioni di dollari a cui si aggiunge il milione e mezzo di contributi elettorali.

Ma anche gli altri Paesi non rimangono fermi: India, Qatar, Egitto, il governo curdo dell’Iraq settentrionale: tutti stanno investendo per esserci e fare sentire il proprio punto di vista nella ridefinizione delle politiche americane. Sullo sfondo Israele: forse il paese meglio rappresentato in quella arena di policy anche attraverso il reticolo di relazioni con la business comunità americana. La partita è appena cominciata. Anche se l’agenda Biden sembra essere molto focalizzata sulle questioni interne e sul contenimento della presenza cinese in altre aree geografiche è evidente che lo scacchiere medio orientale continuerà ad occuparne uno spazio significativo.

Fabio Bistoncini – pubblicato su “Milano Finanza” del 6 ottobre 2021