di Fabio Bistoncini – Presidente e Fondatore di FB&Associati
Mentre a Bruxelles le istituzioni comunitarie devono fronteggiare lo scandalo legato ai finanziamenti occulti ad alcuni esponenti della policy community, per orientare opinioni e atteggiamenti a favore del governo del Qatar, da qualche tempo negli Stati Uniti si sta sviluppando un interessante dibattito sulla necessità o meno di considerare alla stregua di lobbisti (con i conseguenti obblighi di registrazione / rendicontazione) anche quei centri di ricerca o singoli scienziati che ricevono finanziamenti dall’industria privata. Lo spunto di riflessione è nato qualche tempo fa grazie ad un post su Linkedin dell’amico Gianni Catalfamo.
In quel caso si parlava dei finanziamenti alla comunità scientifica da parte dell’industria petrolifera ma in realtà il tema è molto più ampio e complesso e merita un approfondimento. Da moltissimi anni infatti i gruppi d’interesse, soprattutto quelli di tipo economico, hanno compreso che, per influenzare il processo decisionale, non bastano più le semplici “buone relazioni” o le risorse finanziarie a disposizione o la muscolosità della propria presenza nel contesto socio-economico. Una proposta di policy, per essere accettata, deve infatti essere sostenuta da dati, informazioni serie, affidabili e quindi concretamente verificabili. Per questo hanno sviluppato la prassi di instaurare rapporti consulenziali con il mondo accademico e/o scientifico sia commissionando degli studi specifici, sia facendosi validare i propri. Questo tipo di attività (il coinvolgimento delle c.d “terzi parti”) è diventa ormai una delle leve strategiche di qualsiasi campagna di lobbying e la reputo assolutamente corretta se effettuata in modo trasparente: i rapporti economici tra singoli scienziati o enti di ricerca dovrebbero essere, infatti, sempre esplicitati in modo chiaro ed inequivocabile. È uno dei punti qualificanti di un interessante report dell’OCSE dal titolo autoesplicativo: Lobbying in the 21st Century: Transparency, Integrity and Access. In un paragrafo dedicato a questo argomento gli estensori del report evidenziano la necessità di una maggiore trasparenza su chi “funds research, think tanks and grassroots organisations, as well as on the use of social media as a lobbying tool”.
Una maggiore trasparenza consente di verificare puntualmente la correttezza delle informazioni contenute nelle ricerche e negli studi commissionati ed evitare quindi che generino confusione od errate interpretazioni da parte del pubblico e del decisore. Sono purtuttavia consapevole che spesso, in considerazione della polarizzazione del dibattito pubblico, i gruppi d’interesse siano spinti a “nascondere” le proprie relazioni economiche con enti, think tank o istituti di ricerca. Concreto è il rischio, infatti, che una ricerca venga considerata non affidabile solo perché finanziata da un soggetto privato. O che uno scienziato od un esperto qualificato sia considerato non attendibile solo perché ha rapporti con le aziende del proprio settore di interesse. A quest’ultimo riguardo basti ricordare quanto accaduto nel pieno della pandemia Covid-19, quando cioè illustri virologi venivano contestati, soprattutto sui media, da perfetti sconosciuti e assolutamente incompetenti per il solo fatto di aver ottenuto finanziamenti (tutti perfettamente leciti e dichiarati) dall’industria farmaceutica sull’efficacia della vaccinazione. Non credo, in ogni caso, ci siano alternative alla trasparenza. Un principio che dovrebbe essere sempre la stella polare nell’azione di interlocuzione con il processo decisionale. Se renderla obbligatoria o meno dipende dal contesto istituzionale. Io sarei per l’obbligatorietà. Ma questa è un’opinione del tutto personale.