Il valore dell’analisi politica in consulenza. Il Quirinale come case study

Per una società di advocacy e lobbying il voto per il Quirinale potrebbe apparire un appuntamento di secondaria importanza. Nel meccanismo di pesi e contrappesi, delineato dai costituenti, quello del Presidente della Repubblica sarebbe sulla carta un ruolo di garanzia. La dilatazione dei poteri presidenziali, osservata nella Seconda Repubblica, ha invece accresciuto l’interesse per l’inquilino del Colle e, quindi, per le logiche che determinano la sua designazione. Diversamente dalle precedenti, l’elezione presidenziale 2022 recava un ulteriore motivo di interesse: la possibilità che venisse designato Capo dello Stato il Presidente del Consiglio in carica, sancendo conseguentemente la conclusione dell’esperienza di Governo.

Accanto agli elementi di complessità tipici di un’elezione per il Quirinale si accompagnavano allora nuovi e diversi elementi, che rimandavano in ultima istanza alle trame tattiche intessute da forze politiche, leadership di coalizione, partito e corrente. L’opera consulenziale, offerta ai clienti, non poteva quindi consistere nella consueta ricerca, analisi e valutazione dei fattori e delle condizioni strutturali e contingenti che influenzavano il voto, contribuendo a determinarne l’esito, ma nel renderli intellegibili passo passo. Al paper sugli scenari politici relativi all’elezione del Capo dello Stato, reso disponibile da FBLab il 17 dicembre scorso, veniva, quindi, affiancato «Oggi Quirinale»: la sintetica nota di analisi e commento di ciascun voto presidenziale. Il punto ancora una volta non era accedere alle informazioni ma saperle selezionare e interpretare, cogliendone l’essenza indispensabile per orientare i clienti.

Fin dalle premesse appariva chiara la distanza che separava un approccio meditato alla vicenda Quirinale dalle dispute politiche che ne erano di contorno. Diversamente da quanto comunemente ritenuto, ad esempio, la stessa salvifica aspettativa del kingmaker di turno mancava di ogni benché minimo presupposto. E ciò in ragione della frammentazione del quadro politico, delle contraddizioni in seno a schieramenti e singole forze, e soprattutto dei confliggenti disegni tattici. Cifra ne è stata la capacità dei singoli leader di neutralizzare le iniziative altrui senza però riuscire ad imporre la propria: il destruens che prevale sul construens.

Dopo la retrocessione dell’area liberal-riformista a complemento del centro-sinistra, nella trattativa tra schieramenti era peraltro il solo centro-destra a svolgere un qualche ruolo propositivo. Da par suo il gioco di rimessa di Letta e Conte, si pensi all’iniziale tentativo poi non esperito di Andrea Riccardi, rimandava invece, da una parte, allo sfarinamento delle forze presiedute, ereditato dalle precedenti «gestioni»; dall’altra, all’elemento distintivo delle coalizioni di centro-sinistra rispetto a quelle di centro-destra, da trent’anni a questa parte: l’assenza di un principio d’ordine.

Nel dibattito pubblico sul Quirinale, contrassegnato da un’altalena continua di speranze e delusioni, non veniva messo adeguatamente a fuoco il problema più significativo innanzi ai leader di partito e, per estensione, alle coalizioni: «contarsi» in Aula. La corrispondenza tra peso numerico dichiarato e peso effettivo è del resto questione capitale in ogni trattativa politica. L’espediente cui ricorreva Salvini di non ritirare la scheda dichiarando l’astensione, in occasione della quarta «chiama», segnava non a caso uno spartiacque, seppur momentaneo. A esito del voto il centro-destra si dimostrava, infatti, compatto sul campo mentre al centro-sinistra mancavano 188 schede bianche.

Il successivo tentativo di «bruciare» in modo onorevole Casellati, senza perdere cioè potere negoziale e senza subire quindi una significativa emorragia di voti, si rivelava esiziale per Salvini, alla luce anche della performance in Aula del centro-sinistra, in grado di «contarsi» con successo e di ripristinare quota parte del suo potere negoziale originario. Pagato pegno a Berlusconi e divincolatosi dall’oltranzismo di Meloni, il leader della Lega, dopo la settima «chiama» e le indiscrezioni di una convergenza bipartisan su Belloni, vedeva sciogliersi come neve al sole la sua coalizione e in conseguenze la sua centralità politica.

Collassato l’unico schieramento in campo si faceva strada l’unica soluzione autenticamente conservativa dello status quo: la conferma di Mattarella al Quirinale. Sebbene si fossero configurate cioè le condizioni ideali per una soluzione «centrista», con la completa disarticolazione del quadro politico, veniva avvertito il pericolo che l’Aula potesse, addirittura, designare un Presidente senza che i leader lo avessero indicato. Veniva così meno anche l’ipotesi di ricorrere ad una vera e propria prova d’Aula, con un candidato bipartisan che venisse bocciato, per «giustificare» in termini politici la richiesta di bis a Mattarella.

Nel rimarcare la fallacia di ogni riduzione della dinamica politica al retroscenismo o a modelli monocausali, due tendenze che rischiano di alimentare gli atteggiamenti da «tifoserie» invalsi nel discorso pubblico italiano, il case study del Quirinale comprova il valore in consulenza di un approccio scientifico alla politica.

Fulvio Lorefice – Public Policy Senior Analyst