Le elezioni politiche nei Paesi Bassi e l’ascesa del PVV di Geert Wilders

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Il 22 novembre 2023 si sono tenute le elezioni legislative nei Paesi Bassi, che hanno visto la netta affermazione del Partito per la Libertà (PVV) di Geert Wilders – formazione politica di estrema destra – come lista più votata alla Camera bassa. Ma perché un partito così radicale è riuscito a imporsi nei Paesi Bassi, uno dei paesi più benestanti e storicamente più progressisti d’Europa? Da questo voto si possono trarre insegnamenti utili anche per il contesto italiano?

LE ELEZIONI NEI PAESI BASSI

Il partito di estrema destra che nella prima pagina del programma elettorale riportava “zero euro olandesi andranno verso Bruxelles, l’Italia o l’Africa”, ha vinto le elezioni politiche nei Paesi Bassi. Con il 23,7% dei voti e 37 seggi su 150, il PVV di Geert Wilders è risultato di gran lunga il partito politico più votato, ribaltando i pronostici che fino a pochi giorni prima del voto lo davano in quarta posizione. Non sarà facile formare un governo, ma sarà Wilders il primo a poterci provare.
Ma perché un partito così radicale è riuscito a imporsi nei Paesi Bassi, uno dei paesi più benestanti e storicamente più progressisti d’Europa? Da questo voto si possono trarre insegnamenti utili anche per il contesto italiano?
 
L’ESTREMA DESTRA

Il rapporto degli olandesi con l’estrema destra risale ai primi anni 2000 quando il paese era governato da un’inedita coalizione tra laburisti e liberali che rese l’Olanda un laboratorio in materia di etica e diritti civili. Fu il primo paese al mondo a introdurre il matrimonio egualitario e l’eutanasia, quando il resto del mondo era ancora scosso dagli attentati dell’11 settembre. L’estrema destra olandese non nasce in opposizione alle riforme olandesi, ma individua nell’immigrazione e soprattutto nell’islam “una cultura retrograda (cit. Pim Fortuyn)” o “un’ideologia totalitaria (cit. Geert Wilders)” in grado di sovvertire il liberalismo olandese.
 
Ma furono due omicidi politici a contribuire alla nascita di quelle ondate emotive che portano l’estrema destra olandese ai primi successi. Nel 2002, pochi giorni prima delle elezioni, venne ucciso Pim Fortuyn, leader dei populisti di LPF che, orfani del loro leader, parteciperanno per pochi mesi al primo governo Balkenende salvo poi implodere pochi mesi dopo. Nel 2004 a essere ammazzato fu il regista Theo van Gogh, noto critico dell’islam e fonte d’ispirazione negli anni a venire per Wilders e il suo PVV.
Wilders, fuoriuscito dal VVD che pochi anni dopo affiderà la propria leadership a Mark Rutte, fondò il PVV nel 2006 che, alla sua prima prova con le urne, ricevette 9 seggi, saliti a 24 nel 2010, risultato che lo portò a sostenere il primo governo Rutte, pur senza diventarne parte. Il governo cadde dopo meno di due anni e Wilders non riuscì più a raggiungere percentuali simili, fino alla settimana scorsa. Sotto scorta da anni, Wilders è diventato nel tempo uno dei politici più esperti dell’Aia, alternando campagne molto divisive – fu condannato per aver gridato “meno marocchini” nel 2014 – ad altre con toni più moderati, come nel 2023.
 
L’ALTRA FACCIA DEL SUCCESSO DEI PAESI BASSI

Dopo la prima esperienza fallimentare con il supporto esterno del PVV, intanto, si sono susseguiti diversi governi centristi guidati dal liberale Mark Rutte – dapprima in coalizione con i laburisti, poi con i democristiani e i liberali progressisti di D66: anni di buona crescita economica, bassa occupazione e relativo benessere. Dietro una facciata di grande stabilità, tuttavia, si celava un’insoddisfazione che trova sfogo nel voto per un’ampia pletora di partiti che volevano stravolgere lo status quo. Nel 2019 sono stati i nazionalisti di FvD a risultare il primo partito alle elezioni per la camera bassa, mentre a inizio 2023 a vincere la tornata elettorale successiva è stato il partito ruralista BBB. A inizio novembre sembrava che potesse essere NSC, il neonato partito del democristiano Omtzigt, a raccogliere il voto di protesta contro le élite, salvo però sgonfiarsi a pochi giorni dalle elezioni a favore dell’esperto Wilders.
 
L’elettorato di protesta sebbene in crescita ormai da anni è molto volatile e presenta caratteristiche socio-economiche ben definite: si tratta di un elettorato con un livello di istruzione più basso della media e che abita prevalentemente fuori dai grandi centri urbani. Un elettorato che vive in uno dei paesi più ricchi e globalizzati al mondo ma che subisce gli effetti del successo olandese: un paese sempre più densamente abitato e densamente costruito, con scarsità di abitazioni accessibili, dove nelle università e negli ospedali l’inglese soppianta l’olandese e dove sempre più persone si sentono tagliate fuori. Nelle parole del programma elettorale del PVV, un elettorato per cui “l’Olanda non è più l’Olanda”.
 
IL DIVARIO TRA LE CITTÀ GLOBALISTE E LA PROVINCIA

Da anni, infatti, le elezioni in Olanda hanno messo in evidenza un divario sempre più marcato tra le grandi città, multiculturali, globalizzate, inclusive, woke, verdi e progressiste, e una provincia che si sente alienata da tutto questo.
 
Ad Amsterdam la coalizione tra verdi e laburisti guidata dall’ex-commissario Timmermans ha ricevuto più di un terzo dei voti, e un altro terzo dell’elettorato vota partiti possibilmente ancora più progressisti, tra animalisti, liberal-progressisti, europeisti e antirazzisti. Una situazione simile si riscontra in tante altre città universitarie con una popolazione mediamente giovane e istruita. Le mappe del voto disegnano un quadro ancora più marcato di quello che vediamo in altri paesi, Italia compresa: città progressiste e globaliste, dove cittadini spingono per una più veloce transizione ecologica e digitalizzazione, e province dove più che votare in modo convinto per l’estrema destra, l’elettorato sembra spingere sul freno di quella stessa globalizzazione che l’Olanda ha cavalcato e da cui, nel suo complesso, ha tratto tanti benefici.
 
I DILEMMI E LA CENTRALITÀ DELLE COMUNITÀ

L’esempio olandese è sintomatico di un dilemmaormai comune a gran parte delle democrazie occidentaliconiugare l’innovazione e l’integrazione nelle catene globali del valore delle città con politiche inclusive per coloro che vedono il mondo cambiare troppo in fretta. È un dilemma che si trovano davanti i partiti progressisti, al governo di tutte le principali città in Olanda così come in Italia o altrove, che però vedono lo sgretolamento del consenso in quei territori che un tempo erano salde roccaforti. Partiti che per tornare a vincere dovranno riuscire ad allargare il consenso andando oltre la classe media urbanizzata, identificando nuovi modelli di inclusività. È un dilemma di policy, perché gli obiettivi posti dal Green Deal e dall’Agenda 2030 sono tanto ambiziosi quanto necessari, ma la transizione ecologica e lo sviluppo sostenibile non possono prescindere da un ampio consenso sociale ancor prima che politico. Ed è un dilemmaanche per quelle aziende che stanno investendo in innovazione e sostenibilità, ma che proprio fuori dai grandi centri urbani avranno bisogno di costruire quelle infrastrutture abilitanti per le transizioni in atto, che rischiano di essere bloccate da opposizioni locali.
 
La soluzione a questi dilemmi non sarà semplice, ma se ci è permesso di suggerire un metodo è sicuramente quello di mettere le comunità al centro, e di coinvolgere attivamente i cittadininello sviluppo delle politiche e degli investimenti che impattano in modo così diretto sulle loro vite. Il settore del public affairs si sta evolvendo, ed è sempre più dedito a creare non solo collaborazione tra pubblico e privato, ma valore aggiunto nelle partnership tra pubblico, privato, persone e pianeta. Non è certo compito dei professionisti del public affairs quello di colmare il divario tra città e provincia, ma spesso è interesse anche dei singoli stakeholders quello di facilitare l’instaurarsi di nuovi rapporti di fiducia e modelli di inclusione che creino un consenso e, possibilmente, un valore condiviso.