1. Con l’acquisizione di Gedi Gruppo Editoriale, da parte di Exor: la holding della famiglia Agnelli, veniva a compiersi, nell’aprile 2020, una delle più rilevanti trasformazioni nel sistema dell’informazione italiano degli ultimi anni. Il successivo avvicendamento alla direzione de la Repubblica, ancor più che a la Stampa, segnava contestualmente un mutamento nella collocazione politica del giornale fondato da Eugenio Scalfari. A dispetto del trasferimento all’estero delle sedi legali di Fca e Mediaset, tanto la famiglia Agnelli quanto la famiglia Berlusconi non sembrano intenzionate ad allentare la presa sul panorama informativo nazionale: al contrario orientare l’opinione pubblica e la politica, in una fase delicata come quella attuale, sembra risultare ancora più importante. Quali scenari si delineano allora nel sistema dell’informazione italiano?
L’Italia è sempre stata caratterizzata dal parallelismo politico, locuzione con la quale s’intende un forte intreccio fra politica e informazione. Le cause storiche sono dovute al ritardo in Italia, rispetto agli altri Paesi occidentali, con cui si sono realizzati i processi d’industrializzazione e alfabetizzazione, che non hanno permesso al giornalismo d’attingere ai due suoi pubblici tradizionali: i lettori e gli investitori pubblicitari. Di conseguenza, le imprese editoriali, non potendo realizzare profitti, diventavano voci passive di ben altri attivi, per dirla con la cinica definizione di Mario Missiroli. Fuor di metafora, il luogo attraverso cui i principali gruppi industriali cercavano di fare pressione e accordi con la politica. Quando, poi, con il boom economico i due storici deficit sono stati superati, c’era già la televisione, che ha definitivamente contenuto la possibilità di sviluppo dell’editoria cartacea, anche quella libraria.
Tuttavia, l’attuale interesse dei grandi gruppi – come l’acquisizione del gruppo La Repubblica da parte di Exor – s’inserisce in una logica parzialmente differente e che accomuna l’Italia agli altri Paesi: la centralità che il giornalismo – specialmente quello delle grandi testate – continua ad avere, anzi ha sempre più, nella costruzione dei climi d’opinione. Non è un caso se anche uno dei principali imprenditori del digitale (Jeff Bezos di Amazon) ha sentito l’esigenza di comprare il Washington Post.
La stampa continua a essere strategica per dettare l’agenda dei temi e delle cornici interpretative con cui questi stessi temi sono trattati. Certamente, tutte le fonti interessate ad avere pubblica visibilità possono negoziare con i media i propri punti di vista e quanto più sono forti tanto più avere ascolto; tuttavia, avere un piede direttamente nel mondo dell’informazione conviene di più.
La conferma di quanto detto viene anche dall’attenzione della Exor anche al panorama giornalistico internazionale, con l’acquisizione della quota di maggioranza dell’Economist. Con amara ironia, potremmo dire che abbiamo esportato la figura dell’editore impuro, cioè coloro che principalmente fanno altro e poi posseggono anche testate giornalistiche, proprio perché il mondo dell’informazione è diventato strategico.
Al di là di tutto questo, gli scenari per l’informazione italiana sono, come un po’ in tutto il mondo, non troppo rosei anche – e forse soprattutto – per altri motivi. La grande centralità delle Big Five nel drenare gran parte degli investimenti pubblicitari rende sempre più asfittici i tradizionali modelli di business. Basti considerare la crisi ormai strutturale del modello di quotidiano italiano tipico, quello regionale. Resistono, da un lato, La Repubblica, il Corriere della Sera e il Sole-24 ore, che stanno modificando sostanzialmente la loro offerta in forme multimediali. Recentemente un giornalista ai vertici di una di queste tre testate mi confidava di quanto fosse probabile che tali testate nel giro di pochi anni pubblichino in cartaceo soltanto durante il weekend, pochi articoli in long form. Dall’altro lato, le testate locali, anch’esse, però, devono rapidamente ripensarsi in modo da intercettare meglio la pluralità di soggetti sociali – e le loro crescenti abilità comunicative – che agiscono sui territori.
2. Giorgio Bocca definiva pura «l’editoria che ha per obiettivo centrale l’informazione». Tale modello, impersonato dal proprietario del Corriere della Sera, Urbano Cairo, rappresenta un’eccezione tra i quotidiani italiani e non solo. Gli editori italiani, infatti, traggono mediamente il loro principale profitto da interessi altri rispetto al prodotto informativo. Si discute allora delle influenze che le direzioni dei giornali subiscono nel momento in cui sono chiamate a trattare temi di interesse della proprietà, rappresentando a cascata gli stessi giornalisti non più come un «quarto potere» ma come uno dei tanti gruppi di pressione. Nella democrazia odierna spetta ai nuovi media la funzione di controllo del potere (c.d. watchdog role)?
Ormai i professionisti e gli studiosi di giornalismo di tutto il mondo da tempo sostengono come l’autonomia delle testate non possa che essere relativa. L’intreccio con il potere è in parte ineludibile. E non parliamo soltanto di quello politico, ma anche – e oggi forse si potrebbe dire soprattutto – di quello economico. Si pensi alle difficoltà nel parlare liberamente dei maggiori gruppi industriali, in quanto principali acquirenti degli spazi pubblicitari.
Ciononostante, il watchdog role non può non continuare a costituire un riferimento per il mondo del giornalismo. Sicuramente, la pervasività dell’ambiente digitale consente di praticare queste forme di controllo in modo più capillare rispetto al passato. Si pensi ai leaks, ma anche agli ormai tanti casi di corruzione svelata dal giornalismo collaborativo, cioè quello che vede riunite più testate nello spulciare migliaia e migliaia di documenti che da soli non sarebbero riusciti a controllare, oppure ricorrendo all’aiuto del pubblico, che, volontaristicamente, da privati cittadini oppure riunendosi in associazioni, si prendono la briga di controllare la veridicità delle informazioni, il modo in cui sono stati gestite procedure politiche, economiche o di qualsiasi altra natura.
3. La primissima fase della crisi epidemica, sotto il profilo media, è stato contrassegnato da una straordinaria circolazione di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza. La brusca oscillazione tra sopravvalutazione e sottovalutazione del fenomeno, cifra vera della lettura data dalla prevalenza di forze politiche e media in quelle settimane, ha quindi lasciato il passo all’ormai consueto fenomeno che vede i mass media tradizionali rilanciare la parte più povera e sensazionalistica del confronto social. Un terreno quest’ultimo dove gli algoritmi, secondo quanto emergerebbe dai cosiddetti Facebook Papers, valorizzerebbero già i contenuti più estremi. Lungo questo sentiero sembra venire meno il ruolo di informazione verificata e verificabile da parte dei mass media tradizionali. È così? Come giudica il rendimento del panorama informativo in occasione della pandemia?
L’informazione italiana in merito alla pandemia ha conosciuto diverse stagioni. Una prima, di breve durata, di sottovalutazione del fenomeno. Una seconda di collaborazione con le istituzioni, ma non tanto per quel parallelismo politico prima richiamato, ma perché storicamente accade proprio questo: davanti a grandi crisi la risposta del giornalismo è quello di mantenere un clima di unità e responsabilità collettiva. Quindi, si è arrivati a una terza stagione, in cui sono nati i primi distinguo, le critiche. Insomma, a ritenere – giustamente – superata la “luna di miele” con le istituzioni. Infine, negli ultimi mesi, si è passati a una stagione che potremmo definire da disco incantato, con un’informazione ripetitiva, che ha ripreso la sua classica logica contrappositiva, in cui si esaltano le radicalizzazioni a scapito della riflessività. Logica contrappositiva che pare rafforzarsi con la logica degli algoritmi, ma che – ahimè – il giornalismo tradizionale già aveva assunto perché semplifica il racconto di fatti e fenomeni sociali che invece diventano sempre più complessi. Proprio questa deriva ha facilitato e continua a facilitare la tendenza a sopravvalutare quanto accade sui social e, soprattutto, le pratiche più corrive rintracciabili su tali network.
Carlo Sorrentino è Professore Ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dal 2011 – Università degli studi di Firenze – Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali. I suoi principali temi di ricerca sono il giornalismo, la comunicazione politica e la comunicazione istituzionale. Presiede il corso di laurea magistrale in Strategie della comunicazione pubblica e politica (dal 2019). Dirige dal 2014 la rivista di fascia A Problemi dell’informazione, edita da Il Mulino. Fa parte del comitato di direzione di diverse riviste italiane e straniere. È stato Delegato del Rettore per la Comunicazione (dal 2009 al 2015).
Membro dell’European Network in Media Communication and Cultural Studies. Accademico dei Georgofili. Membro dell’Ailac (Associazione Italo-Latinoamericana di comunicazione). Fa parte del consiglio direttivo della SISCC (Società scientifica di sociologia, Cultura e Comunicazione).
Collabora con diverse testate giornalistiche (carta stampata, radio e TV). Il suo ultimo libro è Percorsi in Comune. La comunicazione nelle municipalità toscane, Carocci 2020, scritto con Laura Solito, Silvia Pezzoli e Letizia Materassi. È in uscita il libro Le vie del giornalismo. Come si raccontano i giornalisti italiani, il Mulino, 2022, scritto con Sergio Splendore